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dendo al libro del conte Napione Sull’uso e su’ pregi della lingua italiana, sostenea nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue che la lingua non è un fatto arbitrario, e regolato unicamente dall’uso e dall’autorità, ma che ha in sè la sua ragion d’essere; che la sua ragion d’essere è nel pensiero, e quella parola è migliore che meglio renda il pensiero, ancorchè non sia toscana, e non classica, e sia del dialetto, o addirittura forestiera con inflessione italiana. Cosa era quel Saggio? Era l’emancipazione della lingua dall’autorità e dall’uso in nome della filosofia o della ragione, come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione, il senso logico, che penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era lo spirito moderno che violava quelle forme consacrate e fossili, logore per lungo uso, e dava loro un’aria cosmopolitica, l’aria filosofica a scapito del colore locale e nazionale. Aggiungendo l’esempio al precetto, il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi, senza domandar loro onde venivano, e come era uomo d’ingegno, e avea mente chiara e spirito vivace, formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione italiana una lingua animata, armonica, vicino al linguaggio parlato, intelligibile dall’un capo all’altro d’Italia. Gli scrittori, intenti più alle cose che alle parole, e stufi di quella forma in gran parte latina che si chiamava letteraria, screditata per la sua vacuità e insipidezza, si attennero senza più all’italiano corrente e locale, così com’era, mescolato di dialetto, e avvivato da vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo stato della coltura. Così si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d’Italia, a Venezia, a Padova, a Milano, a Torino, a Napoli: così scrivevano Baretti, Beccaria, Verri, Gioia, Galiani, Galanti, Filangieri, Delfico, Mario Pagano. Resistenza ci era, massime a Firenze, patria della Crusca, e a Roma, patria dell’Arcadia; schia-