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quel motto felice: Il trecento diceva, il cinquecento chiacchierava. Costoro erano, il maggior numero, cruscanti, arcadi, accademici, puri letterati, tutti brava gente, che avevano in sospetto ogni novità e non volevano essere turbati nelle loro abitudini. Nell’altro campo erano i filosofi, che non riconoscevano autorità di sorta e tanto meno quella della Crusca, che invocavano la loro ragione, e vagheggiavano una nuova Italia così in letteratura, come nelle istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la parte della filosofia nelle lettere, senza occuparsi di politica, anzi spesso la loro insolenza letteraria era mantello alla loro servilità politica, come fu del gesuita Bettinelli e del Cesarotti. In prima fila tra’ contendenti erano l’abate Cesari e l’abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso i classici cancellò in sè ogni vestigio dell’uomo moderno. Il Cesarotti, di molto più spirito e coltura, nella sua irreligione verso gli antichi andò così oltre, che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene, e andò in cerca di una nuova mitologia nelle selve Caledonie. Quando comparve l’Ossian, girò la testa a tutti: tanto eran sazii di classicismo. Il Bardo scozzese fu per qualche tempo in moda, e Omero stesso si vide minacciato nel suo trono. Si sentiva che il vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia società, e in quel vuoto ogni novità era la ben venuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto cozzo di spade scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni, gli Algarotti e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro l’idillio, espressione di una società sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a Clori, e piacevano quei figli della spada, quelle nebbie e quelle selve, e quei signori de’ brandi, e quelle vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il pubblico applaudiva. Per vincere Cesarotti non bastava gridargli la croce; bisognava fare e piacere al pubblico. Ora l’attività intel-