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donna come poteva essere concepita in quel tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell’anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni, e senza sua coscienza. A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e no della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili, che scoppiano improvvisi e contro l’aspettazione, nell’irragionevole, spinto sino all’assurdo, negl’intrighi e nelle scaltrezze, di bassa lega, più da donnetta che da regina, e tutto così a proposito, così naturale, con tanta vivacità, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire: è vero. Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero proverbiali, come: Temerario! Ch’ei venga! quando allora allora avea detto: Mai più non mi vedrà quell’alma rea. O come: Passato è il tempo, Enea, che Dido a te pensò. La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli aveva promessa la sua mano, quel cacciar via da sè Osmida e Selene nella cecità del suo furore, le sue credulità, le sue dissimulazioni, le sue astuzie, tutto ciò è tanto più comico, quanto è meno intenzionale, contemperato coi moti più variati di un’anima impressionabile e subitanea, sdegni che son tenerezze, e minacce che sono carezze. C’è della Lisetta e della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Jarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia popolare; Selene ch’è l’Anna, soror mea, rappresenta la parte della patita, con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge il più alto comico, massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso dell’azione ha l’aria di un intrigo di bassa commedia, co’ suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.

La Didone fece il giro de’ teatri italiani. E dappertutto