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di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve armeggiare, gli s’inchinarono, tratti dall’onda popolare. Certi luoghi che fanno sorridere il critico movono oggi ancora il popolo, tirano applausi. Nessun poeta è stato così popolare come il Metastasio, nessuno è penetrato così intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è dunque ne’ suoi drammi un valore assoluto, superiore alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del secolo decimonono.

Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è più poesia, è non capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella sua spontaneità, produce risultati superiori alle intenzioni del compositore. Ciò ch’egli vi mette con intenzione e con coscienza, non è il pregio, ma il difetto del lavoro. E intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.

Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneità, come l’artista.

Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una tragedia. Studiò l’argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell’uomo e con quella società. Non capiva che a quella società e a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico dell’Angelica e degli Orti Esperidi, e in presenza della sua anima elegiaca, idillica,