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sta fu la seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua vocazione. Roma ne avea fatto un Arcade. Napoli ne fece un poeta. La Didone abbandonata, scritta sotto l’ispirazione e la guida della Bulgarelli, fissò l’opinione, e Metastasio prese posto d’un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il primato, poeta cesareo alla corte di Vienna. Più tardi, a proposta dello stesso Zeno, occupò egli quell’ufficio, e menò a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente stimato, e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu un idillio, e se questo è felicità, visse felicissimo sino alla tarda età di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamarono il divino Metastasio.
Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che avea già mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l’architetto.
La sua idea fissa fu di costruire il melodramma, come una tragedia, tale cioè che anche senz’accompagnamento musicale avesse il suo effetto. E la sua ambizione fu di lasciare le basse regioni dell’idillio e del buffo, e tentare i più alti e nobili argomenti del genere tragico, come se la nobiltà fosse nell’argomento. Questo si vide già nella Didone e nel Catone in Utica. Più tardi volle gareggiare coi grandi poeti francesi, e il Cinna di Corneille ebbe il suo riscontro nella Clemenza di Tito, e l’Atalia di Racine nel Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero dispute se e fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco in mezzo l’inevitabile Aristotele e le famose quistioni delle unità drammatiche. Metastasio si mescolò nella contesa, e nell’Estratto dell’Arte poetica di Aristotile addusse indiret-