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fuori delle leggi, ma le leggi stesse non conformi a giustizia ed equità. Gli scrittori cominciarono a notare tutt’i disordini e abusi nelle leggi civili e criminali, e i principi lasciavano dire, perchè non si toccava della forma de’ governi, nè era messa in dubbio la loro potestà, anzi si facea loro appello per isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia non veniva dalla filosofia o da ragioni metafisiche, come dicea Giannone, ma da un intimo sentimento di legalità e di giustizia. Al cinquecento il motto dei riformatori era la corruttela de’ costumi. Allora fu la ingiustizia delle leggi. Quel moto era religioso ed etico; questo era politico, quello stesso moto sviluppato nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze.

Il movimento, rimasto in gran parte speculativo e senza immediate applicazioni in Bruno, in Campanella, in Vico, quasi ancora un’utopia, allargandosi nella classe colta, si concretava nello scopo e ne’ mezzi per opera principalmente de’ giureconsulti. Scopo era combattere i privilegi ecclesiastici e feudali in nome dell’eguaglianza, combattere l’arbitrio in nome della legge e riformare la legge in nome della giustizia e dell’equità. La leva era il principato civile, elemento laico, legale e riformatore, sul quale si appoggiavano le speranze dei novatori. Le idee erano sviluppate con grande erudizione, con molta sottigliezza d’interpretazioni e di argomentazioni, come di gente avvezzate alle dispute forensi. In Germania il movimento era appena spuntato, rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume, e n’era nata una nuova speculazione sull’intelletto umano, una filosofia o una critica dell’intelletto, del quale Locke avea scritta la storia. Kant e poi Fichte concentravano lo spirito in quegli ardui problemi, e attendevano a gittare profonde le radici prima di alzare l’albero, pensavano alla base, sulla quale dovea sorgere la civiltà na-