più di senso comune.» Un discorso simile sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di fede. E qualcuno poteva rispondergli: «Fatti in là, e sta fra le tue nuvole, e non venire fra gli uomini, chè non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su’ libri, è la tua erudizione. Ma il passato è per noi cosa reale di cui sentiamo le punture ad ogni nostro passo. Il fuoco ci scotta, e tu ci vuoi provare che, perchè è, ha la sua ragion di essere. Lascia prima che noi lo spengiamo, e poi ci parla della sua natura. Quando ci avremo tolto di dosso codesto passato, nostro martirio e de’ padri nostri, forse allora potremo essere giusti anche noi e gustar la tua critica». Vico rimase solo nel secolo battagliero, e quando la lotta ebbe fine si alzò come iride di pace la sua immagine su’ combattenti, e comunicò la parola del nuovo secolo: Critica. Non più dommatismo, non più scetticismo: Critica. Nè altro è la storia di Vico, che una critica dell’umanità, l’idea vivente, fatta storia, e nel suo eterno peregrinaggio seguita, compresa, giustificata in tutt’i momenti della sua vita. I principii, come gl’individui e come la società, nascono, crescono e muoiono, o piuttosto, poichè niente muore, si trasformano, pigliando forme sempre più ragionevoli, più conformi alla mente, più ideali. Indi la necessità del progresso, insita nella stessa natura della mente, la sua fatalità. La teoria del progresso è per Vico come la terra promessa. La vede, la formula, stabilisce la sua base, traccia il suo cammino, diresti che l’indica col dito, e quando non gli resta a fare che un passo per giungervi, la gli fugge dinanzi, e riman chiuso nel suo cerchio e non sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la conseguenza. Gli è perchè, profondo conoscitore del mondo greco romano, non seppe spiegarsi il medio evo, e non comprese i tempi suoi, parendogli indizio di decadenza e dissoluzione quella vasta agitazione religiosa