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clinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata nell’esclamazione del poeta:

O gran bontà de’ cavalieri antichi!

Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche cosa come il Cid, e scaduto ogni sentimento religioso, morale e politico, l’onore rimaneva senza base, e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali; e più brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano del Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia, e come il mondo religioso, non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo d’immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la novità, la varietà e la straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato era serio e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt’i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e appagare l’immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le favole più assurde, e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa l’attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo, intramettendo, ripigliando co’ passaggi più bruschi, e portando l’incoerenza fino nell’esterna orditura del racconto.

Già cominciava a spuntare una scienza dell’uomo e della natura. L’invenzione della stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci, gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spa-