Pagina:Storia della letteratura italiana II.djvu/281


― 269 ―

intento alla sostanza delle cose, e incurante di ogni lenocinio. Ma se cansa le esagerazioni e gli artificii letterarii, non ha la forza di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d’uso, frondoso e monotono, trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall’abitudine, pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma ne’ suoi balzi e nelle sue disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle cose. Ivi ti par di avere innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente, non una formazione organica e conforme al contenuto, ma una forma già fissata innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola esteriorità; qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione, con elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno sembrano scritte oggi.

Ma saviezza fiorentina e immaginazione napoletana erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della Natura era libro proibito, e chi vi leggeva, era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a Padova, a Bologna, a Roma, co’ suoi manoscritti appresso, e scrivendo sempre per sè e per altri, in verso e in prosa, in latino e in italiano, trattati, orazioni, discorsi, dispute. A Bologna gli furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna a Napoli, e va a prender fiato a Stilo sua patria. Ivi sperava riposo; «ma accadde a me quello che dice Salomone: quando l’uomo avrà finito, allora comincerà; quando riposerà, sarà affaticato». Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione, fu come reo di maestà condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di una accusa, se ne suscitava un’altra, perchè «gl’iniqui non cercavano il delitto, ma farmi comparir delinquente.