a sostenere l’interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati, e l’intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano, sono esseri insignificanti, nè dall’intreccio esce alcuna scena fondamentale, dove si raccolga l’interesse. Più tardi scrisse altre commedie, intestatosi a farle in versi sdruccioli, per rendere l’imitazione latina perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Nè in questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza più. Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue bugie cava quattrini da’ gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt’i novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla; allora la parte di scroccone e giuntatore era rappresentata dall’astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l’ambiente di Firenze, dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico. Ma nel Negromante ariostesco senti la Società latina, dove il servo è più astuto del padrone, rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l’intende e la studia su’ libri. Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda facile de’ birboni che ci vivono intorno. Sono essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de’ servi e degli avventurieri. Concetto profondo se l’Ariosto l’avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio, sì che i servitori ne sappiano più dei padroni