e non si obblia in esso; ma ne fa il suo istrumento, i suoi mezzi, anche a costo di profanarlo indegnamente. Tratta Gesù Cristo come un cavaliere errante. «E che importa, dice, la menzogna che io mescolo a queste opere? dacchè io parlo de’ Santi, che sono il nostro rifugio celeste, le mie parole diventano parole di evangelio». Di Santa Caterina scrive: «Io non avrei fatto sei pagine di tutto, se avessi voluto attenermi alla tradizione e alla storia. Le mie spalle hanno assunto tutto il peso dell’invenzione; perchè infine queste cose tornano alla più gran gloria di Dio». Talora si secca per via, il cervello è vuoto, e ammassa aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria, che rivela il ciarlatano. «Come lodare il religioso, il chiaro, il grazioso, il nobile, l’ardente, il fedele, il veridico, il soave, il buono, il salutare, il santo e il sacro linguaggio della giovane Caterina, vergine, sacra, santa, salutare, nobile, graziosa, chiara, religiosa e facile?» Sembra una campana che ti assorda, e ti turi le orecchie. Questo dicevasi stile fiorito, e l’Aretino te ne regala, quando non ha di meglio. Talora vuol pur dire, ma non ha vena, e non sentimento, ed esce nelle più sbardellate metafore e nelle sottigliezze più assurde, massime ne’ suoi elogi, che gli erano così ben pagati. «Essendo i meriti vostri» scrive al Duca d’Urbino, «le stelle del Ciel della Gloria, una di loro, quasi pianeta dell’ingegno mio, lo inclina a ritrarvi con lo stil delle parole la imagine dell’anima, acciocchè la vera faccia delle sue virtù, desiderata dal mondo, possa vedersi in ogni parte; ma il poter suo, avanzato dall’altezza del subbietto, non ostante che sia mosso da cotale influsso, non può esprimere in qual modo la bontà, la clemenza e la fortezza di pari concordia vi abbiano concesso, per fatal decreto, il vero nome di Principe.» È un periodo alla boccaccevole stiracchiato ne’ concetti e nella forma. Qui non ci è il come