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vedeano morire. Dietro ad essi se n’entrò Iasòn, e subito uscì col vello d’oro alle spalle, ballando eccellentissimamente, e questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.» Finita la commedia nacque sul palco all’improvviso un Amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi si udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore: e così fu finita la festa con grande satisfazione e piacere di chi la vide, dice sempre il Castiglione, l’autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla. Cosa era questa Calandra, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un fac-simile di Calandrino, il marito sciocco, motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l’astrologo che vive a spese de’ gonzi. L’intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che vestiti or da uomo, or da donna generano equivoci curiosissimi. Dov’è lo sciocco, ci è anche il furbo e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio, il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come si vede l’argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l’alito di Lorenzo de’ Medici. È uno sguardo allegro e superficiale gittato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a’ balli mimici delle intromesse