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generali dell’arte e della scienza, che non hanno patria. Quell’Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl’italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca de’ loro poeti signori del mondo, e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce ne era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma ci era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore, che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l’Italia un po’ a traverso de’ suoi desiderii. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro.

Non è maraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d’osservazione abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura ci entrava molto del poetico. Vedilo nell’osteria giocare con l’oste, con un mugnaio, con due fornaciari a picca e a tric trac. «E nascono molte contese e molti dispetti d'ingiuriose parole, e si combatte per un quattrino, e le grida ne vanno fino a san Casciano». Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi.