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D’esser de’ tuoi ch’io ti somiglio in fede.
Vieni, chè il cor ti chiede.
L’universo muore con Beatrice:
Ed esser mi parea non so in qual loco,
E veder donne andar per via disciolte,
Qual lagrimando, e qual traendo guai,
Che di tristizia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
Turbar lo sole ed apparir la stella,
E pianger egli ed ella;
Cader gli augelli volando per l’äre,
E la terra tremare:
E uom m’apparve scolorito e fioco,
Dicendomi: che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua ch’era sì bella.
Sì bella! Questa è l’immagine. Gli basta chiamarla bella; chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi soli indifferenti in tanto dolore:
Chè non piangete, quando voi passate
Per lo suo mezzo la città dolente?
Se voi restate per volere udire,
Certo lo core de’sospir mi dice
Che lacrimando ne uscirete poi.
Ella ha perduta la sua Beatrice:
E le parole che uom di lei può dire,
Hanno virtù di far piangere altrui.
La vita e la morte di Beatrice non è in lei, ma negli altri, in quello che fa sentire. L’immagine è immediatamente trasformata in sentimento. E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fantasma, esistente più nella immaginazione del lettore, che nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo