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Ed avea seco umiltà sì verace,
Che parea che dicesse: io sono in pace.
E par che dalla sua labbia si mova
Uno spirto soave e pien d’amore,
Che va dicendo all’anima: sospira.
Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella è come Dio, nel santuario. Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla:
Che qual l’avesse voluta mirare,
Saria dinanzi a lei caduta morta.
Beatrice saluta, e
Ogni lingua divien tremando muta
E gli occhi non l’ardiscon di guardare.
Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto, non restano che due immagini, del nascere e del morire, l’angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei morire. La vede in sogno, e già morta, e quando le donne la coprian di un velo. Ma se della morte non ci è l’immagine, ce n’è il vivo sentimento.
. . . Morte assai dolce ti tegno:
Tu dèi omai esser gentile,
Poi che tu sei nella mia donna stata,
E dèi aver pietate e non disdegno.
Vieni: chè sì desideroso vegno