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venzionale. Queste che presso gli altri sono astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del quadro, sono non il quadro, ma contorni e accessorii. Il quadro è Beatrice, non così reale che tiri e chiuda in sè l’amante, ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci è proprio l’amante, ma ci è il poeta, che per questo o quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere sè stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo, fa capolino il dottore, il retore, e il rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore, e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce all’ispirazione. Allora è Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni, appunto perchè immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rileva schietto come lo sente, più adorazione e ammirazione, che appassionato amore di donna. Tale è il sonetto:
Tanto gentile e tanto onesta pare.
E tale è la ballata, ove con la grazia e l’ingenuità di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla Beatrice:
Io mi son pargoletta bella e nova,
E son venuta per mostrarmi a vui
Dalle bellezze e loco, dond’io fui.
Io fui del cielo e tornerovvi ancora,
Per dar della mia luce altrui diletto;
E chi mi vede e non se ne innamora,
D’amor non averà mai intelletto.
Ciascuna stella negli occhi mi piove
Della sua luce e della sua virtute: