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gnato dal sorriso machiavellico. Cosa ha di vivo il diavolo borghese e volgare dello Straparola, o la sua Teodosia, che è la leggenda messa in taverna?
Se una ristorazione del fantastico non era possibile, come poteva aversi una ristorazione del tragico? Ma ci furono anche novelle tragiche con la stessa intonazione del Decamerone, anzi della Fiammetta. E sono quello che potevano essere, fior di rettorica. D’immaginazione ce n’era molta, ma di sentimento non ce n’era favilla. Cosa di eroico o di affettuoso o di nobile poteva essere tra quelle corti e quelle accademie, ciascuno sel pensi. Chi desideri esempli di questa rettorica, vegga la Giulietta di Luigi da Porto, o nel Bandello i monologhi di Adelasia e Aleramo, o nell’Erizzo i lamenti di Re Alfonso sulla tomba di Ginevra. Come a svegliare i romani ci voleva la vista del sangue; a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va sino al più atroce e al più volgare. La figliuola di Re Tancredi nel Boccaccio è una nobile creatura, ma sono mostri volgari la Rosmonda del Bandello, o l’Orbecche del Giraldi, che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono e non ti agitano, per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti elegantissimo è il Bargagli, che sceglie forme nobili e solenni anche dove è in fondo cosa da ridere, come è la sua Lavinella, situazione comica in forma seria, anzi oratoria.
Ciò che rimane di vivo in questa letteratura, non è il fantastico, e non il tragico, ma un comico, spesso osceno e di bassa lega e superficiale, che non va al di là della caricatura e talora è più nella qualità del fatto che nei colori. Alcuna volta ci è pur sentore di un mondo più gentile, soprattutto nell’Erizzo e nel Bandello, come è la novella di costui della reina Anna; ma in generale come nelle corti anche più civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo licenzioso e grossolano, la novella è oscena e plebea in contrasto grottesco con uno