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il tempo. Scrivea il più spesso a sfogamento di cervello, il maggior suo passatempo. Non cercava l’eleganza, per fuggire fatica, e gli veniva il sudor della morte, quando si dovea metter la giornea e rispondere per le consonanze o per le rime a lettere eleganti. Lo scrivere stesso gli era fatica. A vivere avemo sino alla morte, dice al Bini, a dispetto di chi non vuole, e il vantaggio è vivere allegramente, come conforto a far voi, attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma, e scrivendo soprattutto il manco che potete: quia haec est victoria quae vincit mundum». Si qualifica asciutto di parole, poco cerimonioso e intrigato in servitù: ottime scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano, e lo tormentano e si dolgono che non risponda, e non li ami e li dimentichi, gli viene la stizza:
Perchè m’ammazzi con le tue querele,
Priuli mio, perchè ti duoli a torto,
Che sai che amo più te che l’orso il miele?
Sai che nel mezzo del petto ti porto
Serrato, stretto, abbarbicato e fitto,
Più che non son le radici nell’orto:
Se ti lamenti perchè non ti ho scritto...
E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia e la lettera finisce con un eccetera. Benedetta pigrizia, che lo fa parlare come gli viene alla bocca e gli fa scriver lettere, che sono un zucchero di tre cotte, intarsiate di brevi motti latini per vezzo, le più saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de’ segretarii che se ne scrissero tante e così sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza, che volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda. Fateci un capitolo sulla primiera! «Compare, scrive il poveruomo, io non ho potuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e commento della primiera, e