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Tre volte il vento solamente strinse,
E restò lasso senza fin schernito.
Maniera corretta, e nulla più. Manca in queste stanze il movimento, il brio, il sentimento, o piuttosto la voluttà idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare dei due poemi idillici, le Api del Rucellai e la Coltivazione dell’Alamanni. Ci è la naturalezza, manca il sangue.
L’idillio fu la moda dell’Italia ne’ suoi anni di pace e di prosperità. Era il riposo voluttuoso di una borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita privata, fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore delle armi, fra tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo cavalleresco. L’idillio cessa di essere un genere vivo, e va a raggiungere il platonismo e il petrarchismo. Gli angeli e il paradiso, Giove e Apollo, le piagge apriche e i vaghi colli, i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme, e n’esce un vasto repertorio di luoghi comuni, dove attingono poeti e poetesse: chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.
Il quattrocento ondeggiava tra l’idillio e il carnevale: ozio di villa e ozio di città. La quiete idillica era il solo ideale superstite nella morte di tutti gli altri, presso una società sensuale e cinica, la cui vita era un carnevale perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma. I canti carnascialeschi fanno il giro d’Italia. La buffoneria, l’equivoco osceno, lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura in prosa e in verso, l’impronta dello spirito italiano. Le accademie sono il semenzaio di lavori simili. Esse rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e fannulloni, che ispirarono il Decamerone, modello del genere. Sono letterati ed eruditi, in pieno ozio intellettuale, che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti, tanto più ammirati per la vivacità dello