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del dialetto, quella non so quale attività, che nasce dall’uso vivo, e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera, come si vede nelle Novelle del Lasca, ne’ Capricci del Bottaio e nella Circe del Gelli, nell’Asino d’oro e ne’ Discorsi degli Animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole, come non mancano fra gli altri italiani uomini d’ingegno vivace, che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana, quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni, nelle Lettere, nel Dafni e Cloe. La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre, che battezzavano lingua italiana, cioè a dire tra la forma popolare o viva, ed una forma convenzionale e letteraria. Anche in Toscana, gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona, come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini, ma avevano innanzi un tipo prestabilito, e cercavano una forma nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.

Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d’Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate, i rispetti, gli stornelli, le forme spigliate della poesia popolare, andarono a poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti, e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo, boccaccevole e petrarchista, tenuto allora principe della prosa e del verso.

Certo, prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura, e l’ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori de’ secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene, e