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Ne’ suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non so che astratto e rigido, come di uomo ben composto negli atti e nella persona, pure impacciato. È in lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia si può chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate, e averne le lodi; ma i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietà d’Omero, e fu salutato allora l’Omero italiano. Certo, non crede alle sue favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune incredulità scappa fuori alcuna volta in quache tratto ironico; ma questo riso della coltura a spese della cavalleria non è il motivo, è un accessorio fuggevole del racconto. Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle corti. Quelle forme erano così vuote, come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia il Bojardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un’epopea.
Il mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati; il mondo cavalleresco, mancati tutt’i suoi motivi interiori, è qui sotto forme epiche il mondo plebeo dell’immaginazione, un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo, senza serietà di scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di spada. Come Elena nell’Iliade, qui è Angelica che move intorno a sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la vera motrice dell’immensa macchina, è il maraviglioso in permanenza, la Maga. Il miracolo continua; non lo fanno i Santi; lo fanno i maghi e le maghe. E il miracolo non è la macchina o l’istrumento,