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gato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui, e in luogo di chiudersi nella natura e ne’ fenomeni dell’amore fino alle più raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualità degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi trova il suo amore!

Qui l’aspettai, e quinci pria lo scorsi,
Quinci sentii l’andar de’ leggier piedi,
E quivi la man timida li porsi;
Qui con tremante voce dissi: Or siedi;
Qui volle allato a me soletto porsi:
E quivi interamente me li diedi.
.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   
O sospirar che di ambo i petti uscia!
O mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
Che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lasciommi piena di disio,
Quando già presso al giorno disse: Addio.

L’Ambra, il Corinto, Venere Marte, la Nencia sono poemetti di questo genere. Soprastà per calore ed evidenza di rappresentazione l’Ambra, graziosa invenzione ispirata da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la Nencia, che pare una pagina del Decamerone. Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della società, rappresentando gli amori di Vallera e Nencia, due contadini, con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze fu piena della Nencia; era la città che metteva in caricatura il contado. L’idillio vi si accompagna con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo e