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fossero Orlando e Carlomagno; con le frasi ampollose de’ romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le divise, gli stemmi, gli scontri con una serietà frigola. Anche Giuliano de’ Medici fece la sua giostra, e divenne l’eroe di quel poemetto, che i posteri hanno chiamato le Stanze.

Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese,

Sì che i gran nomi e i fatti egregi e soli
Fortuna o morte o tempo non involi.

Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati. E che cosa è rimasto? Le stanze: forme vaganti, di cui nessuno cerca il legame, ciascuna compiuta in sè. Nella giovine mente del poeta non ci è il romanzo, ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide; ci è Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d’immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come le stelle nel cielo all’occhio semplice del pastore. Questo è il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico; delle cui fila interrotte nessuno si cura; perchè la giostra non è il motivo di questo mondo; è la semplice occasione. La sua unità non è in un’azione frivola e incompiuta, debole trama. La sua unità è in sè stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo sentimento della natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.

La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa di Venere, il giardino d’Amore, gl’intagli, non sono già episodi, sono questo mondo esso medesimo nella sua sostanza, animato da un solo soffio. Sono l’apoteosi di Venere e d’Amore, della bella Natura, la nuova Divinità.

E la natura non ha già quel vago, che ti fa pensoso