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Si stende, così tu, vieppiù vezzosa,
Che il giovanetto agnel ne la pasturo.
E sei più cara assai e grazïosa,
Che le fredde acque a’ corpi faticati,
O che le fiamme a’ freddi, o ch’altra cosa.
E i tuoi capei più volte ho simigliati
Di Cerere a le paglie secche o bionde,
Dintorno crespi al tuo capo legati.
. . . . . . . . . . .
Vieni, ch’io serbo a te giocondo dono,
Che io ho colti fiori in abbondanza,
Agli occhi bei, d’odor soave e buono.
E siccome suol esser mia usanza,
Le ciriege ti serbo, e già per poco
Non si riscaldan per la tua distanza.
Con queste, bianche e rosse come fuoco
Ti serbo gelse, mandorle e susine,
Fravole e buzzacchioni in questo loco.
Belle peruzze e fichi senza fine,
E di tortore ho preso una nidiata,
Le più belle del mondo e piccoline.
Si avvicinano i giorni sacri a Venere, e nel suo tempio traggono pastori e fauni e satiri e ninfe, e Ameto trova la sua Lia fra bellissime Ninfe, delle quali contempla le bellezze parte a parte, fatto giudice esperto e amoroso. E tutti fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere, e di Amore. Sopravvengono altre Ninfe, le quali non umane pensava, ma Dee, e contempla, rapito celesti bellezze e di pastore si sente divenuto amante; dicendo: «Io usato di seguire bestie, amore poco avanti da me non saputo seguendo, non so come mi convertirò in amante seguendo donne». Le belle Ninfe gli siedono intorno ed egli scioglie un inno a Giove, e canta la sua conversione. Questi sono gli antecedenti del romanzo, sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è il vez-