Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/329


― 319 ―

tuto farla a lui, che pure è un letterato. Vi mostra egli così poco spirito, come nella lettera a Nicolò Acciajoli, che il Petrarca grecizzando chiamava Simonide, dove leva le alte strida, perchè invitato alla corte di Napoli gli sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio, ed esce in vituperii, in minacce, in pettegolezzi resi ancora più ridicoli da quella forma ciceroniana. Come qui minaccia e vitupera e inveisce alla latina, così nel Corbaccio satireggia con la storia, co’ luoghi comuni degli antichi poeti, narrando fatti o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti. L’ordito è semplicissimo. Il Boccaccio, beffato da una donna, si vuole uccidere, ma il timore dell’Inferno ne lo tiene, e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi, non col ferro, ma come i letterati fanno con concordare di rime o distender di prose. Fra questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel Laberinto d’amore, o Valle incantata, una specie di selva dantesca, dove gli appare un’ombra ed è il marito della donna, che nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con lei. Costui gli espone tutte le cattive qualità delle donne a cominciare dalla sua. E quando si è bene sfogato, lo conduce sopra di un monte altissimo, onde vede il Laberinto metter capo nell’inferno. Questa vista guarisce il Boccaccio del mal concetto amore. Come si vede la satira non è rappresentazione artistica, ma esposizione in forma di un trattato di morale de’ vizii femminili. Nondimeno trovi qua e là dei bei motti, e novellette graziose e descrizioni vivaci dei costumi delle donne con l’uso felicissimo del dialetto fiorentino, com’è la donna in chiesa, che incomincia una dolente filza di paternostri, dall’una mano nell’altra e dall’altra nell’una trasmutandogli senza mai dirne niuno, o la donna che con le sue gelosie non dà tregua al marito, e di ciarlare mai non resta, mai non molla, mai non fina, dalle, dalle, dalle dalla mattina infina alla sera, e