Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/21


— 11 —

Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e stentata, è pure qua e colà una certa grazia nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite questi versi:

Ei par ch’eo viva in noja della gente
Ogni uomo m’è selvaggio:
Non pajono li fiori
Per me, com’ già soleano,
E gli augei per amori
Dolci versi faceano agli albori.


Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di maraviglia, e lo commuovono e lo interessano, senza ch’ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta, e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.

Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma è di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.

Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori, quella vita cavalleresca, mescolata di colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella vita nazionale. La gaja scienza, il codice d’amore, i romanzi della Tavola Rotonda, i Reali di Francia, le novelle arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il Soldano, tutto questo era penetrato in Italia, e se colpiva l’immaginazione, rimaneva estraneo all’anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l’imitazione. Avemmo anche noi i Trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche. L’intelligenzia, poema in nona rima ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere. L’amore divenne un’arte, col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella donna, ma la donna