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la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano siciliani. Cronache, trattati scrivevano in un latino già meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt’i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il volgare, di tutt’i volgari moderni il più simile al latino.
La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma già il volgare, com’era usato in tutt’i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia.
Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime, e grande ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin quì è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l’eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate, e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un’espressione ancor semplice e immediata, ma più nobile, più diretta, e meno locale è nella Romanza attribuita al re di Gerusalemme, o nel lamento dell’amante del Crociato, di Rinaldo di Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicità e verità di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo sonetto, come lo chiama l’innamorata, dovea fare la più grande impressione. Comincia così:
Giammai non mi conforto
Nè mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
E vogliono collare.
Vassene la più gente
In terre d’oltremare.
Ed io, oimè lassa dolente!