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bellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un legato del Papa, come Carlo di Valois, che giostrò con la lancia di Giuda, come dice Dante. I ghibellini invocavano l’imperatore. E credesi che Dante abbia scritto questo trattato per agevolare la via all’Imperatore Arrigo VII, di Lucemburgo, sceso a pacificare l’Italia, e morto al principio dell’impresa, glorificato da Dante, celebrato da Mussato, lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato e guelfi e ghibellini, che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui, e che metter l’ordine e salvar la società dalle fazioni è antico pretesto di tutt’i conquistatori.

Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto ad Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue opere latine, di cui la più originale è quella De vulgari eloquio, e unendovi il Convito, si può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.

Era uomo dottissimo, ma non era un filosofo. Nè la filosofia fu la sua vocazione, lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito. Fu per lui un dato, un punto di partenza. L’accettò come gli veniva dalla scuola, e ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto, ma in nessuna cosa lasciò un’orma del suo pensiero, posto il suo studio meno in esaminare che in imparare. Accoglie qualsiasi opinione anche più assurda, e gran parte degli errori e de’ pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale riverenza Cicerone e Boezio, Livio e Paolo Orosio, scrittori pagani e cristiani. La citazione è un argomento. Il suo filosofare ha i difetti dell’età. Dimostra tutto, anche quello che non è controverso; dà pari importanza a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di ogni qualità, anche i più puerili; spesso non vede la sostanza della quistione, e si perde in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico e le infinite distinzioni. Pure se fra tanti viottoli ti regge ire sino alla fine, troverai nella sua Mo-

De Sanctis ― Lett. Ital. Vol. I 10