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la loro vita, purchè alcuno cominci, e sono da chiamare pecore e non uomini. Gli altri vi caggiano per vanità o per vanagloria, o per invidia o per pusillanimità. Questo disamare lo volgare proprio e pregiare lo altrui, gli pare un adulterio, conchiudendo con queste sdegnose parole: «e tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d’Italia, che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri». E però egli scrive questo comento in volgare, per fargli avere in alto e palese quella bontade che ha in potere e occulto, mostrando che la sua virtù si manifesta anche in prosa, senza le accidentali adornezze della rima e del ritmo, come donna bella per natural bellezza e non per gli adornamenti dell’azzimare e delle vestimenta, e che altissimi e novissimi concetti convenientemente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, vi si esprimono. E finisce con queste profetiche parole: «Questa sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà, ove l’usato tramonterà».
Tanta veemenza nell’accusare, tanto ardore nel magnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era l’opinione degl’infiniti ciechi, com’egli li chiama, che tenevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne l’intento. Il latino continuò a prevalere: egli medesimo, lasciato a mezza via il Convito, trattò in latino la rettorica e la politica, che insieme con l’etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici.
Il libro de Vulgari eloquio non è un fior di Rettorica, quale si costumava allora, un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi, ma è vera critica applicata ai tempi suoi, con giudizi nuovi e sensati. La base di tutto l’edifizio è la lingua nobile, antica, cortigiana, illustre, che è dappertutto e non è in alcuna parte, di cui ha voluto dare esempio nel Convito. Questo ideale