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que un tipo unico, presente in tutte le lingue neo-latine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun’altro.

Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese, per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nell’uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma era dappertutto, come il tipo unico, a cui s’informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.

Questo tipo o carattere de’ nostri dialetti appare e nella somiglianza de’ vocaboli e delle forme grammaticali, e nei mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era il volgare. Così Malespini dicea: «la nostra lingua latina e il nostro volgare», cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne’ suoi dialetti.

Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti, che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi a quello stampo, e che si diceva il volgare, così prossimo al romano rustico.

Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.

La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto, dall’altra, ad