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che di pace spacciavano covare sotto un tradimento. La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza morale passava agli avversarii, più audaci, e confidenti in vicina vittoria. Già ci era un’altra aria in città. Non pur gl’indifferenti, ma anche noti seguaci de’ Cerchi mutavano lingua. Sicchè l’oratore di Carlo riferì che la parte de’ Donati era assai innalzata e la parte dei Cerchi era assai abbassata, veggendo come dopo le sue parole molti dicitori si levarono in piè affocati per dire e magnificare messer Carlo.

Dino, volendo negare l’ingresso a Carlo e non osando prender su di sè la cosa, essendo la novità grande, si rimise al suffragio de’ suoi concittadini. Fu un plebiscito fatto dal debole e che riuscì in favore dei forti: solito costume de’ popoli, e il buon Dino nol sapea. I soli fornai si mostrarono uomini, dicendo che nè ricevuto, nè onorato fusse, perchè venia per distruggere la città.

Dino credette trovare il rimedio, chiedendo a Carlo lettere bollate, che non acquisterebbe niuna giurisdizione, nè occuperebbe niuno onore della città nè per titolo d’imperio, nè per altra cagione, nè le leggi della città muterebbe, nè l’uso. Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera, e provvide che il passo gli fosse negato e vietata la vivanda. Ma la lettera venne, e «io la vidi e fecila copiare, e quando fu venuto, io lo domandai se di sua volontà era scritta. Rispose: sì certamente». Ora che Dino ha la lettera in tasca, può viver sicuro.

E gli viene un santo e onesto pensiero, immaginando: questo signore verrà, e tutt’i cittadini troverà divisi: di che grande scandalo ne seguirà. Onde li rauna nella Chiesa di San Giovanni, e loro fa un fervorino, perchè sopra quel sacrato fonte onde trassero il santo battesimo, giurino buona e perfetta pace. Le parole di Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente che viene