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zione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si può concetturare con più o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare, per la insufficienza de’ documenti. Oltrechè, non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.

Si possono affermare alcuni fatti.

La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della Nazione, parlata e scritta da’ chierici, dai dottori, da’ professori e da’ discepoli. Ricordáno Malespini dice che Federico II seppe la lingua nostra latina è il nostro volgare.

Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell’uso comune della vita, si vede pure dai contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina, trovi la voce in uso con un: vulgo dicitur, o dicto.

Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il romano rustico. Nell’812 il Concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in lingua romana rustica. Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, solo che l’oratore si fosse accostato alla guisa del volgo. Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne’ diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ec. C’era dun-