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Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:
«Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre malizie. Non penate più: andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il sangue de’ vostri fratelli; spogliatevi della fede e dello amore; nieghi l’uno all’altro ajuto e servigio. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende una per una. Non v’indugiate, o miseri: chè più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.»
Qui non ci è l’uomo politico. Ci è la realtà vista da un aspetto puramente morale e religioso, come gli ascetici; il concetto è lo stesso; la materia è diversa. Considerata così, la realtà riesce al buon Dino altro che non pensava, e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la realtà e la maledice. I suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, sì che divenne il trastullo degli uni e degli altri, perdette lo stato e fu calunniato, come avviene a’ vinti. Allora prende la penna, e li maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuità che se le male passioni degli altri son manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontà.
Mentre gli Ambasciatori armeggiano con Bonifazio, largo promettitore, purchè sia ubbidita la sua volontà, furono in Firenze eletti i nuovi Signori, e Dino fu di quelli. Piacque la scelta, perchè uomini non sospetti e buoni, e senza baldanza, e avevano volontà d’accomunare gli uffici, dicendo: questo è l’ultimo rimedio. Questo è il giudizio che porta Dino di sè e de’ colleghi. Ma i loro avversari n’ebbono speranza, perchè li co-