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dopo un tal detto di Plinio non vi abbia più luogo a dubitarne. Egli è vero, che alcuni Medici trovansi nominati nelle Iscrizioni pubblicate dallo Spon, che hanno nomi Romani. Ma in primo luogo alcune di quelle Iscrizioni non hanno indicio alcuno, da cui si possa conoscere, se sian di tempo anteriore a quello, di cui parla Plinio, ovver posteriore; anzi alcune son certamente di più tarda età, e appartenenti all’Impero di Domiziano, di Trajano, e de’ lor Successori. Inoltre il nome Romano non basta a provare l’origine e la Cittadinanza Romana. Abbiam veduto di sopra nominarsi da Plinio parecchi Medici, che al nome sembran Romani, i Cassii, gli Alvuzii ec., e nondimeno essi non eran certo Romani; poiché Plinio stesso soggiugne, che niun de’ Romani avea finallora esercitata quest’arte. Gli schiavi, quando erano manomessi, prendevano comunemente il nome del loro liberatore, e talvolta dimenticavano in tutto il loro nome natio. Chi sa qual fosse l’antico nome Africano del Poeta Publio Terenzio? Ei non vien mai chiamato altrimenti che dal nome dell’antico suo Padrone. La stretta e intrinseca amicizia, che co’ più ragguardevoli Cittadini ebbero alcuni Medici in Roma, è anch’essa troppo debole pruova a mostrare, che questi ancora fossero Cittadini. Chi più accetto a’ Grandi di Roma di Panezio, di Polibio, e di altri Greci? Anzi anche per riguardo agli schiavi, basta legger le lettere di Cicerone al suo Liberto Tirone per conoscere, che questi ancora, quando se ne rendevano degni, godevano della più amichevole confidenza de’ lor Signori. Egli è vero finalmente, che l’arte della Medicina da Cicerone si dice onesta, ma in confronto di quelle, che son vergognose e vili, e onesta per riguardo a quella classe d’uomini, che la esercitano: Minimeque, dice egli1, artes hæ probandæ, quæ ministræ sunt voluptatum, cetarii, lanii, coqui, fartores, piscatores, ut ait Terentius... Quibus autem artibus aut prudentia major inest, aut non mediocris utilitas quæritur, ut Medicina, ut Architectura, ut doctrina rerum honestarum, hæ sunt iis, quorum ordini conveniunt, honestæ. Si può dunque a mio parere concedere allo Spon e a’ suoi seguaci, che non tutti i Medici fossero schiavi; ma che tutti fossero Cittadini innanzi al privilegio di Cesare e di Augusto, e che tra essi
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199 Note
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L. XXIX c. I.
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L. XXV c. I.
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Lib. XX c. IX.
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Recherch. d’Antiquité Diss. XXVII.
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Art. Medicine.
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L. X c. LIII.
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L. XX c. IX.
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T. I Lettre XXV.
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Récherches Curieuses d’Antiquieté Diss. XXVII.
10 An. 1735 p. 13 &c. 11 Questo celebre passo di Plinio, e quelle parole excepisse Medicos, sono state da me spiegate nel senso del P. Harduino, e di alcuni altri, cioè, che quando i Greci furon cacciati di Roma, i Medici vi furon nominatamente compresi. Contro questa spiegazione alcune ingegnose difficoltà mi ha proposte il Ch. Sig. Ab. Giuseppantonio Cantova, noto per l’eleganti sue traduzioni de’ libri dell’Oratore, e di alcune Orazioni di Cicerone, ed io riporterò qui le parole medesime, con cui egli me le ha proposte. “Ecco le mie riflessioni sul passo di Plinio Lib. 29 Cap. I. Non rem antiqui damnabant, sed artem; maxime vero quæstum esse immani pretio vitæ recusabant. Ideo templum Æsculapii, etiam cum reciperetur in Deus, extra urbem fecisse, iterumque in Insula traduntur. Et cum Græcos Italia pellerent, excepisse Medicos. Augebo providentiam illorum &c. Il membro, dove dicesi excepisse Medicos, è una continuazione del membro antecedente, col qual si unisce colla semplice congiunzione &. Adunque per conoscere, se l’excipere ha senso favorevole a’ Medici, o, come voi l’intendente, contrario, è da vedere, se ciò che precede faccia senso contrario o favorevole. Ora potrebbe dirsi chi il fa favorevole, 1. Perciocché ivi si dice, che furon due Templi eretti ad Esculapio: il che certamente non può aver notato Plinio quasi cosa significante avversione a’ Medici. Che se vi venisse in mente di dire, che per l’avversione a’ Medici fossero quelli eretti non dentro la Città, ma fuori: primieramente dico, che se ciò indicasse avversione, sarebbe questa anzi verso Esculapio (il che fa a’ calci coll’erezione de’ Templi) che verso i Medici. Ma poi tal riflessione è sventata da ciò, che nota P. Vittore Regione 4. In Insula Ædis Jovis & Æsculapii,, & Ædes Fauni. Direm noi, che fossero i Romani contrarj a Giove ed a Fauno? Plutarco alla quist. 94 delle Romane tre ragioni accenna, perché si fabbricasse il tempio d’Esculapio fuor di città. 1. Perché i Greci il solevano fabbricare fuori in aria aperta e salubre. II. Perché gli Epidaurii, da’ quali erasi avuto quel Nume, ne aveano il Tempio lungi di Città. III. Perché essendo dalla nave, che il portava, uscita una serpe, credettesi, ch’Esculapio stesso avesse con ciò segnato il sito del tempio. 2. Confermasi la stessa cosa da quel, che immediatamente precede al testo sopracitato, dove Plinio dice: Quid ergo damnatam ab eo rem utilissimam credimus? minime hercules; poi seguita a dire, che ivi Catone riferisce, con qual medicina egli e la moglie si conducessero ad una lunga vecchiezza: e dichiara d’aver un libro di rimedj per curar il figlio e i famigliari. Questo racconto dinota, che non la Scienza e l’uso della Medicina, ma sibbene la guadagneria si condannava, e la viziosa maniera d’esercitarla; come ora parlerebbe chi ragionasse de’ cavillosi artifizj de’ Causidici: non rem damno sed artem. Col nome d’Arte non intendesi la Scienza de’ mali e de’ rimedj, alla quale Catone stesso erasi applicato, ma si prende in mala parte per cattivo e sordido artifizio. Comprovasi colle parole che seguono dopo l’excepisse Medicos, cioè Augebo providentiam illorum, quasi dicesse: tanto son lungi dal togliere a’ Romani il vantaggio, che può venire da’ Medici, ma l’accrescerò eziandio: non vo’ togliere l’Arte Medica, ma migliorarla anzi ed ampliarla; il che avea già Plinio accennato poco sopra col dire: quæ nunc nos tractamus... quem nos per genera usus sui digerimus; e tanto eseguisce spiegando ordinatamente i varj generi di medicine: la onde dice alla Sezione nona: Ordiemur autem a confessis &c. In somma tutto sembra camminar bene, quando in poco riducasi il discorso di Plinio così: Catone avvisa il figlio di guardarsi da’ Greci massimamente da’ Medici. Che dunque! Crederem noi, ch’egli una cosa tanto utile riprovasse? (coerentemente a quel che precede, adopera Plinio il vocabolo rem per dinotar la Scienza e l’uso della Medicina). Mai no. Conciossiaché Catone stesso ha scritto di questa Scienza, e se n’è valuto per sé e pe’ suoi, e quello, ch’ei notò brevemente, verrà da noi più ampiamente trattato. Non la Scienza e l’uso di Medicina dannavasi da’ Maggiori, ma la furberia de’ Medici Greci. Però è, che eressero un Tempio ad Esculapio, e quando cacciarono i Greci, ne eccettuarono i Medici. Ed io stesso intendo di promuovere questa facoltà ed accrescerla. Potrebbono a taluno far forza in contrario al sin qui detto quelle parole: Etiam cum reciperetur is Deus, quasi che i Romani anche allora che ammisero Esculapio dimostrassero la lor avversione co’ Medici, col volerlo fuor di Città. Ma tralasciando, che l’etiam può anche congiungersi colle parole precedenti, non sembra contro gli addotti testi di P. Vittore e di Plutarco bastevole fondamento una formola non ben chiara in uno Scrittore, il cui stile è sovente oscuro ed equivoco, oltre gli errori, che tanto sono frequenti ne’ copiatori antichi. Finalmente non si adduce altro testo di Plinio, dove usi l’excipere nel senso inteso dall’Harduino: anzi i passi de’ Giuristi non sono chiari abbastanza per assicurarci, che tal significato, quale pretendesi, avesse quel verbo presso i Latini. lascio a voi il decidere, qual delle due opinioni sia meglio provata. Io non veggo provata bastantemente quella dell’Harduino. Bastami, che veggiate l’impegno mio per le cose vostre”. Io lascio agli eruditi l’esame di queste riflessioni, le quali certo sembrano aver molta forza, e, benché io non ci vegga ancora sì chiaro, che mi senta costretto a 200
cambiar sentimento, confesso però, che la spiegazione del P. Harduino non mi sembra più così certa, come una volta pareami. 12 L. XXVI. c. III. 13 De Orat. l. I n. 14. 14 M. Goulin non ha avvertito, che il passo di Cicerone, in cui ragiona d’Asclepiade, è posto in bocca di Crasso, il quale essendo morto nell’anno di Roma 662 parlando di Asclepiade, come d’uom già defunto: Asclepiades, quo nos Medico amicoque usi sumus, tunc cum eloquentia vincebat ceteros Medicos &c., ci mostra con ciò, ch’ei gli era premorto. Quindi credendo il suddetto Scrittore, che di Cicerone fossero quelle parole, e osservando che l’Opera de Oratore fu da lui scritta l’anno di Roma 698 ne ha inferito, che solo alcuni anni prima fosse morto Asclepiade (Mem. pour servir à l’Hist. de la Medic. an 1775 p. 224); dal qual primo calcolo non giustamente stabilito è poi venuto, che anche nel fissare l’età di Temisone e degli altri Medici venuti appresso ei non sia stato molto esatto. 15 L. VII c. XXXVII. 16 Plin. Ib. 17 Præf. lib I & c. III, lib. II c. XIV, Præf. lib. V. 18 Method. Medend. l. I & II; De Natural. Facult. l. I & II; De Crisibus l. III c. VIII. 19 Lib. de libris propriis. 20 Osserva M. Goulin, che Plinio dice veramente Temisone scolaro di Asclepiade, ma che Celso lo dice sol successore, e vuole, che credasi a Celso anzi che a Plinio (Mem. pour servir à l’Hist. de la Medic. an. 1775 p. 225 &c.). E io gli crederei, se Celso negasse, che Temisone fosse stato scolaro del detto Medico. Ma ei col dirlo seguace non esclude che gli fosse ancora scolaro; e Plinio era troppo vicino a que’ tempi, perché a lui ancora non debbasi fede. Se però fosse vero ciò, che afferma come certo lo stesso M. Goulin, cioè che Temisone vivesse ancora l’anno decimo dell’Era Cristiana, che combina coll’anno 763 di Roma, e anche più tardi, converrebbe necessariamente seguire l’opinione di M. Goulin; perciocché Asclepiade era morto almeno cent’anni prima. Ma io non veggo, qual pruova egli arrechi di quest’epoca della vita di Temisone, la quale anzi sembra distrutta da ciò, che nel Tomo secondo diremo parlando di Celso. 21 L. XIV c. XVII. 22 V. Indic. Auct. ad calcem L. I Plin. edit. Harduin. 23 Plin. lib. XXIX c. I. 24 Method. Medend. lib. I prope fin. 25 Præf. lib. I. 26 Ep. XCV. 27 L. LIII. 28 L. XIX c. VIII. 29 L. XXIX c. I. 30 In Aug. c. LIX & LXXXI. 31 Loc. cit. 32 Svet. in Jul. c. XLIII. 33 Dio loc. cit. 34 L. I Epist. XV. 35 Dio loc. cit. 36 Æn. XII. 37 T. XV p. 377. 38 Alcune delle cose qui dette intorno al Medico Antonio Musa voglionsi qui correggere dopo le belle riflessioni, che intorno ad esso ha fatte il Consiglier Gio: Luigi Bianconi da troppo acerba morte rapitoci il I di Gennajo dell’anno 1781 due anni soli dappoiché egli ebbe pubblicate le sue eleganti non meno che erudite Lettere Celsiane. In primo luogo Antonio Musa non può essere stato scolaro di Asclepiade, perciocché questi era già morto, come egli ha ben provato, prima dell’anno 663 di Roma, e Antonio Musa viveva ancora circa settant’anni dopo, cioè nel 731 in cui cadde la malattia d’Augusto, dalla quale egli il sanò, e la quale crede il medesimo Autore, che fosse la sola, a cui amendue i rimedj oppose Antonio, le lattuche, e i bagni freddi. Egli ha osservato ancora, che Antonio scrisse diversi trattati dell’Arte Medica, de’ quali parla con molta lode Galeno, e che egli ebbe un fratello per nome Euforbo, il quale era Medico di Juba Re della Mauritania. Egli finalmente ha prima di ogni altro scoperto, e confutato l’errore non mio soltanto, ma di tutti i moderni Scrittori, cioè che Marcello morisse pe’ bagni freddi da Antonio Musa ordinatigli, ed ha mostrato, ch’egli finì di vivere a’ caldi bagni di Baja, e che è anche poco probabile, che questi gli fosser prescritti da Antonio. Ma ciò, che a questo luogo è più degno d’osservazione, si è, che il Cons. Bianconi nelle suddette lettere ha con molti argomenti assai ben dimostrato, che il Medico Cornelio Celso deesi annoverare tra gli Scrittori del secolo d’Augusto contro a ciò, che io, seguendo la comune opinione degli Scrittori, avea asserito. Di ciò nondimeno mi riserbo a parlare nel Tomo II, in cui anche in questa seconda edizione si troverà ciò, che a Celso appartiene per le ragioni nella Prefazione accennate. 39 Svet. in Aug. c. XCI; Vell. Paterc. lib. II c. LXX. 40 T. II p. DCCCLXXXVIII. 201
41 L. XII ad Att. Ep. XIII. 42 In Aug. c. XI. 43 Ep. Cic. ad Brut. VI. 44 In Jul. c. LXXXII. 45 L. XXIX c. I. 46 Murat. Thes. Inscr. t. II p. CMXXVII. 47 Ib. p. CMXLV. 48 Vet. Inscr. pag. DCXXXV, DCXXXVI. 49 Thes. Inscr. t. II p. CMXXIV. 50 Nel Museo Vaticano riprendesi la spiegazion da me data a quella voce Schola, e si afferma, che non significa scuola, come io l’ho interpretata, ma portico o sala, ove le persone di una determinata professione o di un qualche Collegio si radunavano (T. II p. 72), e citasi la spiegazione che ne ha data il Ch. Sig. Ab. Amaduzzi, e potevansi anche citare il valoroso Ab. Gaetano Marini (Giorn. di Pisa T. III p. 143), il Pitisco (Lexic. V. Schola) ec. Io non mi ostinerò a sostenere la mia opinione; perché a provare, che la Medicina fiorisse in Roma, giova ugualmente una pubblica scuola, e una pubblica adunanza. Ma si può anche vedere ciò, che in difesa di questa opinione ha scritto l’erudito Biagio Garofalo, il quale vuole egli pure, che di Scuola si parli nell’accennata Iscrizione (Caryoph. Dissert. Miscell. p. 343). 51 Récherches Curieuses d’Antiquité Diss. XXVII. 52 Agli Autori, che hanno scritto in difesa della condizione de’ Medici presso i Romani, deesi aggiugnere il Ch. Sig. Dott. Giuseppe Benvenuti nella sua erudita Dissertazione su questo argomento stampata in Perugia nel 1779. 53 De Benef. l. III c. XXIV. 54 L. XXIX c. I. 55 De Offic. l. I n. 42. Errore: Il tag pages non può essere utilizzato nei namespace Pagina: e Indice:
- ↑ De Offic. I. I. n. 42.