Pagina:Storia della letteratura italiana - Tomo I.djvu/306

gli Oratori a tenersi lontani dall’imitazione di Tullio, di cui non credevasi cosa sicura il favellare con lode, ed a seguire in vece gli esempi di Pollione e di altri di lui seguaci.

XXXI. Queste a mio parere si furono le principali cagioni, per cui la Latina Eloquenza dopo la morte di Cicerone degenerò e venne meno. Io so, che altri ne incolpano Cassio Severo Orator celebre a’ tempi di Augusto, e si appoggiano a un passo dell’Autor del Dialogo De caussis corruptæ Eloquentiæ da noi poc’anzi citato, ove si dice; Cassium Severum... primum affirmant flexisse ab illa vetere atque directa dicendi via. Ma vuolsi riflettere, che questi non fiorì che verso il fine dell’Impero di Augusto; perciocché la Cronaca Eusebiana ne pone la morte seguita sotto Tiberio, e dopo 25 anni di penosissimo esilio, l’anno 784 di Roma, ossia nel quarto anno dell’Olimpiade

CCII86. E il cambiamento dell’Eloquenza par che accadesse


Note

1

L. I de Orat. n. 4.

2

Alle cagioni, che concorsero a fare, che l’Eloquenza avesse in Roma sì pronti e sì felici progressi, si può aggiugnere

ancor quella, che recasi dall’Ab. du Bos (Réflexions sur la Poesie &c. t. III p. 134 &c.). L’Eloquenza, dice egli, non sol conduceva alla più luminosa fortuna, ma era ancora, per così dire, il merito alla moda. Un giovane nobile, e di que’ che talvolta leggiadramente si dicono il fior più fino di Corte, vantavasi di perorar bene, e di difendere con applauso le cause degli amici ne’ Tribunali, come oggi si vanta di avere un bell’equipaggio ed abiti di buon gusto, e ne’ versi, che in lode di lui si facevano, rammentavasi ancor l’arte di ben parlare. Ei ne cita in prova questi versi di Orazio (Carm. lib. III od. I), con cui egli parlando a Venere di un cotal giovane, così le dice: Namque & nobilis & decens Et pro sollicitis non tacitus reis, Et centum puer artium Late signa feret militiæ tuæ. In tal maniera il genio ancora e la moda concorre a promuovere le Scienze, e il desiderio di piacere rende dolce a soffrirsi quella fatica nel coltivarle, che altrimenti sembrerebbe gravosa troppo e insopportabile. 3

De Cl. Orat. n. 27.

4

Ib. n. 33.

5

Vit. Tib. & C. Gracch.

6

De CL. Orat. n. 27.

7

Plutarch. l. c.

8

Valer. Max. l. IV c. IV n. 1.

9

l. c. n. 58.

10 L. I C. I. 11 V. Freytag Specimen Hist. Liter. p. 43. 12 Plutarch. l. c. & Plin. Histor. L. XXXIV C. VI. 13 Consol. ad Helv. p. 199 edit. Elzevir., & Consol. ad Marc. p. 271. 14 L. c. p. 45. 15 De Cl. Orat. n. 36. 16 De Orat. lib. II n. 45 &c. 17 Vit. C. Marii. 18 De Orat. l. III n. 3. 19 De Cl. Orat. n. 82. 20 De Virili Ætate Lin. Lat. Vol. II p. 10 &c. 21 De Cl. Orat. n. 64. 22 Ibid. 23 Ibid. n. 88. 24 Ibid. n. 92. 25 Ibid. n. 93. 26 Ibid. n. 94. 27 Vit. Attici. 28 Orator. n. 38. 29 Gellius. lib. I c. V. 30 Saturn. lib. II c. IX. 31 Cic. l. VIII ad Famil. ep. II. 32 L. XI c. III. 33 Quintil. l. I c. I; Valer. Max. l. VIII c. III. 34 A intender meglio le cose, che qui e altrove raccontiamo di Cicerone, ecco una breve notizia delle principali epoche della sua Vita, secondo il Middleton. Nato in Arpino l’anno di Roma 647 da Marco e da Elvia di lui moglie, e istruito ne’ buoni studj, cominciò verso l’età di 26 anni a trattar le cause nel Foro. Viaggiò poscia in Grecia e tornatone fu nominato Questore l’anno 678, e con tal titolo stette l’anno seguente in Sicilia. Fu eletto Edile l’anno 683, fu Pretore nel 687 e Console nel 690, nel qual anno scoprì, e sciolse la congiura di Catilina. Ma questa stessa congiura, e l’odio, in cui per essa egli cadde presso i congiurati rimasti vivi e presso i loro fautori, gli fu poscia cagion dell’esilio da Roma, che dovette sostenere cinque anni appresso. Richiamatone l’anno seguente fu nel 702 mandato Proconsole nella Cilicia, ove ei lunsigossi di aver date pruove di valor militare, ed ebbe dall’esercito il titolo d’Imperadore. Giunto di ritorno a Roma sul cominciare del 704 vide poco dopo accendersi la guerra Civile tra Cesare e Pompeo, nella quale fu nel partito del secondo, ma in modo che seppe ancor conciliarsi il favore del primo, della cui morte però, s’ei non fu complice, fu certo approvatore e lodatore. Nella nuova guerra, che arse poscia fra Ottavio e Antonio, stette pel primo. Ma poiché essi e Lepido si riunirono insieme, Cicerone fu una delle vittime alla loro amicizia sagrificate, e per volere di Antonio fu ucciso a’ 7 di Dicembre dell’anno di Roma 710. 35 De Orat. lib. II n. 1. 157

36 De Cl. Orat. n. 91. 37 Plutarch. Vit. Cicer. 38 Lib. I de Legib. n. 3. 39 V. Quintil. l. VII c. III. 40 Suasor. VI. 41 Lib. II. 42 Lib. VII c. XXX. 43 L. X c. I prope fin. 44 L. X c. I. 45 Orator. n. 37. 46 Loc. cit. 47 l. XII c. I. 48 Ib. c. X. 49 Lib. VII epist. IV. 50 Sveton. in Claud. c. XLI. 51 L. XVII c. I. 52 An. 1718 Mars p. 552. 53 Num. 71. 54 Num. 72. 55 In Julio c. LV. 56 L. X c. I. 57 Ibid. 58 L. XVI ad Famil. 59 L. VII ep. V. 60 L. XXI ad Famil. ep. XVII. 61 Ib. ep. III. 62 L. VII c. III. 63 L. XIII c. IX. 64 Comment. in Orat. pro Mil. 65 L. II Saturn. c. III. 66 L. XI c. III. 67 Bibl. lat. t. I p. 431 Edit. Ven. 68 Tusculan. lib. II n. 2. 69 Præfat. ad lib. I Controv. 70 P. Rog. Jos. Boscovich Societ. J. in Supplem. ad Philosoph. Recente. Benedicti Stay tom I p. 352. 71 La distinzione, ch’io fo a questo luogo tralle Scienze e le Belle Arti, dicendo, che quelle hanno per lor primario oggetto il vero, e che queste hanno per lor primario oggetto il bello, e che perciò nelle prime si posson sempre far nuovi passi, sì vasto essendo il regno della natura, che riman sempre nuovo paese a scoprire, ma che quando le seconde son giunte a quella perfezione, in cui consiste il bello, il volere ancora avanzarsi più oltre è il medesimo, che dare addietro; questa distinzione, io dico, e questa mia opinione è stata ingegnosamente impugnata dal Sig. Conte Gian Francesco Galeani Napione di Cocconato Passerano (Saggio sopra l’Arte Storica, Torino 1773, p. 291 ec.). Questo valoroso Cavaliere con quella urbanità, che è propria della sua nascita, e che a tutti gli uomini di lettere dovrebbe esser comune, dopo aver onorata la mia Storia troppo più ch’ella non merita, si fa a esaminare e a combattere ciò, ch’io affermo. E in primo luogo egli pruova, che il Bello non è proprio solamente delle Arti, ma ancor delle Scienze, e che con ugual ragione si dice bella una dimostrazione, una scoperta ec., che un Poema o un’Orazione, e a tal fine assai giustamente distingue il Bello della Natura, il Bello intellettuale, e il Bello d’imitazione. Ciò ch’egli dice su tale argomento fa ben conoscere, quanto giuste e chiare siano l’idee, ch’egli ne ha; e io confesso, che assai meglio di me egli ha analizzata questa materia. Mi lusingo nondimeno, che se si esamini attentamente ciò, ch’io ne ho detto, si vedrà che quanto alla sostanza io non mi discosto molto dal sentimento di questo eruditissimo Cavaliere, perciocché io non affermo, che l’unico oggetto delle Scienze sia la scoperta del vero, ma solo ch’essa è l’oggetto loro primario, il che non esclude, che in esse anche il bello non abbia la sua parte, e che potendosi sempre fare nuove scoperte, nuove bellezze si possan sempre aggiungere. Quanto all’altro punto, cioè, che nelle Belle Arti il voler andare più oltre di quel che han fatto i più perfetti modelli, che ne abbiamo sotto gli occhj, sia il medesimo che il condurre l’arte medesime al loro decadimento, egli osserva, che per quanto eccellenti siano cotai modelli, non son però tali, che qualche maggior perfezione non possa loro aggiungersi, e questa sua proposizione ancora provasi da lui molto ingegnosamente. Egli poscia conchiude: La cagione per tanto della decadenza di queste (delle Belle Arti), quando sono giunte ad un certo segno, non è che limitato sia il Bello, ma è che limitato è l’ingegno umano; perciò bisogna cercarla nella natura dell’uomo, non nella natura delle medesime... L’esser posti dalla ristretta natura dell’ingegno umano limiti, mentre l’uomo desidera e procura ad onta delle sue poche forze di andar avanti, è quello che cagiona la decadenza delle Belle Arti, massime in quelle che imitano il Bello Metafisico della Natura, e le fa cadere nel ricercato e nel manierato. Gli sforzi, che si fanno da’ mediocri, ed anche, ove non sieno regolati, da’ grandi ingegni, per andar oltre nella espressione del Bello, producono 158

il gusto falso, che sembra bello, perché nuovo e difficile, benché il nuovo solo e il solo difficile non bastino per costituire maggior grado di Bellezza. Questa fu la cagione della depravazione in Italia della Poesia, della Eloquenza, dell’Architettura nel secolo scorso, e della Musica nel nostro. Così il Ch. Autore, alle cui riflessioni io ben volentieri mi arrendo. Anzi interrogando me stesso, parmi che ciò appunto volessi io dire, e che se taluno mi avesse fatta l’obbiezione, che il mio cortese e valoroso avversario mi ha fatta, avrei io pure spiegata la cosa in somigliante maniera. Rileggendo però ciò ch’io ho scritto in questo e in altri passi della mia Storia, conosco, che non ho spiegato abbastanza il mio sentimento, e mi compiaccio di aver con ciò data occasione a questo dotto Scrittore di mettere in tanto miglior luce l’accennata quistione. V. la nota seguente. 72 Anche il Sig. Ab. Andres ha combattuta, e con quelle gentile maniere, che a lui son proprie, questa mia opinione (Dell’origine e progressi d’ogni Letter. T. I p. 489 ec.). Egli crede in primo luogo, che anche nelle scienze possa avvenire un funesto decadimento, perciocché, egli dice, può accadere, che gli uomini abbandonando le verità scoperte già e conosciute tutti si rivolgano a inutili sottigliezze e a vane speculazioni, e può anche avvenire, a cagion d’esempio, che non curando punto le osservazioni e le esperienze di tanti illustri Filosofi, si torni all’antica opinione dell’orrore del voto. A me pare, che due cose sian queste molto tra lor diverse. Che gli uomini lasciati in disparte i buoni ed utili studj si possan volgere solo a coltivare gli inutili, né io il negherò, né alcuno vorrà negarlo. Ma non è questo il decadimento, di cui si parla. Che in un secolo si studj più, meno in un altro, che in una età le frivole cognizioni si antipongano alle serie, e trascurate le gravi scienze non si occupin gli uomini che in ridicole inezie, può nascer da mille cagioni, che a questo luogo non appartengono. La quistione, di cui qui trattasi, è quella, che in secondo luogo accenna l’Ab. Andres; cioè se allor quando una verità è scoperta, e con evidenti ragioni o con replicate infallibili sperienze provata e confermata, si possa temere, che lasciandosi essa cadere in dimenticanza si torni all’antico errore, da cui per essa eravamo usciti. Or questo è ciò, di che io non so persuadermi, e parmi impossibile, che nelle circostanze da me descritte, nelle quali ora viviamo, ciò sia per accadere generalmente. Dico generalmente, perché potrà certo avvenire, che qualche ingegno troppo amante di novità si allontani dal vero, ancor quando esso è condotto alla evidenza; ma che questo traviamento si possa render comune e universale, io il ripeto, non so indurmi a pensarlo. Crede innoltre l’Ab. Andres, che non debba ripetersi la decadenza dell’amena Letteratura, come io ho affermato, dal desiderio di voler superare que’ rari genj, che alla lor perfezione l’avean condotta; e afferma, che benché sembri, a cagion d’esempio, l’eloquenza condotta alla sua perfezione, sempre nondimeno può trovarsene una maggiore, a cui perciò è lecito l’aspirare. Così, egli dice, poteva un genio uguale a Tullio sollevar l’eloquenza a grado ancor più sublime di quello, a cui egli l’avea condotta. Io nol nego. Ma questi genj capaci d’innalzarsi cotanto sopra que’ genj medesimi, che si considerano come originali e perfetti, quanto son rari? E quanto è perciò più facile ad avvenire, che gli uomini, quali essi sono comunemente, volendo superare que’ gran modelli, cadano nel vizioso, e troppo da essi si allontanino! Io prego innoltre il mio valoroso Avversario a riflettere, che io dico ciò accadere non quando le arti sembrano, ma quando veramente sono giunte alla lor perfezione. Si può dare, a cagion d’esempio, una tal precision di discorso, che il volerla render maggiore il faccia divenire oscuro, una tale eleganza, che volendola spinger più oltre divenga raffinamento. Egli sa troppo bene, che sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum. In tal caso potrà egli negare, che il voler superare cotai perfetti modelli sia lo stesso che il dare addietro? Ma forse è questo un oggetto degno di più lunga Dissertazione, e forse se egli ed io svolgessimo più ampiamente i nostri pensieri, ci accorgeremmo di non esser così l’uno dall’altro discosti, come ci sembra. Così ha osservato anche il valoroso Sig. Ab. Gioachimo Millas, il quale ingegnosamente ha trattato di questo argomento medesimo (Dell’unico e massimo principio ec. T. I Vol. II C. V). 73 L’Ab. Andres, a cui non piace, come si è detto, l’origine da me assegnata al decadimento della Romana Eloquenza, che è comune anche alla Poesia, un’altra ne assegna (Origine, e progressi d’ogni Letter. T. II p. 128 ec.), cioè perché nelle scolastiche Declamazioni era apprezzato il falso sublime, e lo stile affettato, ridondante, e ampolloso, e quindi, come quell’esercizio di declamare contribuì al corrompimento della eloquenza, così contribuì a quello ancora della Poesia. Giustissima è l’osservazione di questo valoroso Scrittore; ma non mi sembra, che basti a spiegare il decadimento, di cui si tratta. Le scuole dell’Eloquenza erano in Roma anche a’ tempi di Cicerone, che le frequentò, come narra Plutarco, e in esse ancora si declamava, e nondimeno l’Eloquenza era sì diversa da quella dell’età susseguente. Rimane dunque ancora a cercare, per qual ragione nelle Scuole e delle Declamazioni il falso sublime succedesse al vero, e invece dello stil grave ed elegante si introducesse l’affettato e il vizioso. 74 Torna qui in campo l’Ab. Lampillas (T. I p. 84) e mi oppone, che Mecenate assai più che Pollione fu l’Autore della corruzione dell’eloquenza. Ciò poco monta al mio e al suo argomento, ed è inutile il disputarne più oltre. Si legga ciò, ch’io ne ho detto, si legga ciò, che ne dice l’Ab. Lampillas; si confrontin tra loro i due passi, si esamini se lo stile languido e effeminato di Mecenate abbia avuti imitatori e seguaci, e ognun tenga l’opinione che più gli piace. Non è qui luogo d’esaminare un’altra obbiezione, che poco prima m’avea egli fatto (pag. 73), cioè, che benché io non neghi, che prima de’ Seneca avesse l’Eloquenza sofferto un rovinoso tracollo, da essi però affermo, ch’ebbe ella il maggior danno; il che dic’egli esser falsissimo, perché fin dagli ultimi anni di Cicerone l’Eloquenza avea cominciato a decadere. Su questo argomento tornerò nelle Giunte al Tomo secondo della mia Storia, ove ritratterò un errore da me commesso nell’annoverare Seneca il Retore tragli Scrittori del secolo di Tiberio, e mostrerò, che ad assai miglior ragione appartiene a que’ di Augusto, e ne trarrò quelle conseguenze, che spontaneamente si offriranno. 75 Sveton. in Jul. c. LVI. 76 Idem de Ill. Gramm. c. X. 77 Quintil. l. I c. V & l. VIII c. I. 159

78 Suasor. VI. 79 Suasor. VII. 80 Ibid. 81 L. XII c. I. 82 Apol. in Rufin. Comment. in Jonam. Epist. LXXXIV ad August. 83 L. X c. I. 84 Epist. C. 85 Proœm. in Excerpt. lib. IV Controv. 86 Ecco un’altra accusa dell’Ab. Lampillas. Ei si stupisce (T. I p. 91) di una mia infelice argomentazione, ove a questo luogo dal vedere, che Cassio Severo morì l’anno 784 di Roma, cioè diciotto anni dopo Augusto, dopo 25 anni d’esilio, ne cavo per conseguenza, ch’ei fiorì verso la fine dell’Impero d’Augusto. Io confesso, che non so vedere la falsità di questa illazione. Cassio fu esiliato l’anno 759 sette anni prima della morte di Augusto il cui assoluto impero cominciò al più tardi nel 726, e durò perciò quarant’anni. Se Cassio fiorì dopo i primi venti o venticinque anni dell’Impero di Augusto, non si può egli dire, che fiorì verso la fine di esso? Egli poi impiega più pagine della sua opera a dimostrare, che molti degli Oratori e de’ Retori corruttori dell’eloquenza, de’ quali io ho parlato nel secolo di Tiberio, fiorirono veramente in quello d’Augusto, e dice (spertissimo, com’egli è nel penetrar gl’interni disegni degli uomini), che ciò io ho fatto, perché non ho creduto (p. 93) dover oscurar la gloria di quel secolo (d’Augusto) coi difetti di questi Scrittori, e per ciò ho differito a parlarne fino a poterli accoppiare co’ due Seneca, pretesi corruttori dell’Eloquenza. Piacevole accusa per vero dire. E donde mai trae il Sig. Ab. Lampillas, ch’io abbia voluto rimuovere dal secol d’Augusto la taccia di aver corrotta l’Eloquenza? Non ho io detto or ora, che dopo la morte di Cicerone più non sorse Oratore, che a lui si potesse uguagliare, o almeno non molto da lungi il seguisse, e che Cicerone medesimo se ne avvide ne’ suoi ultimi anni, e chiaramente, disse, che la latina Eloquenza andava dicadendo miseramente? Non ho io detto nel luogo medesimo: Questo dicadimento dell’Eloquenza Latina appartiene ai tempi di cui parliamo (cioè d’Augusto)? E non ho io a questo fine esaminata in quest’Epoca l’origine di tal decadenza? Io ho differito a parlar di que’ Retori al secolo di Tiberio, perché volendo in esso parlar di Seneca il Retore, ho creduto di dovere ad esso accoppiare gli altri, de’ quali egli ragiona, ed ivi ho nominati indistintamente e Romani e Spagnuoli, secondo che l’occasione ha richiesto. Ma se il Sig. Ab. Lampillas vuole, che in una nuova edizione della mia Storia io ponga nel secol d’Augusto tutti que’ Retori, ubbidirò al suo comando, né dovrò perciò cambiare alcuna delle massime da me stabilite, e sarà sempre vero, che i Seneca hanno recato il maggior danno alla latina Eloquenza, di che dovremo ragionar poscia di nuovo.

Errore: Il tag pages non può essere utilizzato nei namespace Pagina: e Indice: