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marono la più sublime, e graziosa lingua civile, e le diedero quella così detta urbanità, che anche in appresso venne del continuo contrapposta ai dialetti provinciali, ed alla rozza pronunzia delle persone, e delle città di campagna1. Cicerone ripete in più luoghi che la gloria di parlar bene la madre lingua era stata propria dell’età del giovine Scipione, e di Lelio, e che questa stessa gloria devesi particolarmente attribuire alle famiglie dei Lelj, degli Scipioni, dei Gracchi, dei Catuli, dei Cesari, e di altri non escluse le loro

  1. Rispetto all’urbanitas, in quanto che essa era una qualità necessaria del discorso, veggasi Cicerone Orat. III. 11. 12. non aspere Egli dice, non vaste, non rustice, non hiulce sed presse, et aequabiliter, et leniter. In Bruto c. 74- de Off. I. 37. Sonus erat dulcis, dice Cicerone dei Catuli, i quali avevano la riputazione di parlar meglio degli altri la propria lingua; litterae neque expressae, neque oppressae, ne aut obscurum esset, ant putidum. Sine contentione vox, nec languens, nec canora. Dopo Cicerone, Quintiliano stabilì l'urbanitas nel seguente modo VI. 4. Nam meo quidem judicio, illa est urbanitas, in qua nihil absonum, nihil agreste, nihil inconditum, nihil peregrinum, neque sensu, neque verbis. neque ore, gestuque possit deprehendi: ut non tam sit in singulis dictis, quam in toto colore dicendi: qualis apud Graecos atticismos ille redolens Athenarum proprium saporem.