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libro quinto 361

mura, sorte quasi a dileggio dell’imperiale decoro. Spargeva voce, che allo spirare della tregua avrebbe scaricata su quella città tutta la sua collera; ne avrebbe abbattutte le mura, e dispersi gli abitanti. Gli Alessandrini presero un grave timore di queste minacce; e si sommisero ad una vergognosa ceremonia. Usciti della città, aspettarono un messo imperiale, che ve li ricondusse; quasi a mostrare, che quella patria, la quale avevano tanto fortemente difesa, non fosse cosa loro, ma grazioso dono della mercè di Cesare. Volle Federigo, che non più Alessandria, ma Cesarea si addimandasse quella città: ma il vecchio nome ancor dura a guardia di grandi memorie, che non potette cancellare la prepotenza del nuovo1.

Questi erano i trionfi che nella calma della Tregua riportava il Tedesco sui Lombardi: e se quella fosse durata oltre i sei anni, non dubito, che un giogo anche più pesante dell’antico sarebbe venuto a premere gl’Italiani, tanto fu acre e subitaneo il rivelarsi delle discordie municipali. Ma i Cieli altrimenti disponevano le cose: volevano, i Lombardi conseguissero colla pace il frutto de’ generosi sforzi, perchè si persuadessero, essere capaci di libertà; e ad un tempo la perdessero, perchè si ammaestrassero delle cagioni di cotanta perdita. Federigo non mirava certo a capo dei sei anni alla pace, ma bensì alla guerra, che s’imprometteva felice, contro alla conturbata Lega. Ostavagli il figliuolo Errico VI già da venti anni riconosciuto futuro Re di Lamagna: costui non voleva agitazioni guerresche, sapeva la virtù dei Lombardi, e non si sentiva poderoso da stare a fronte de’ medesimi, morto il padre. Parevagli assai poca cosa la corona di Germania, agognava focosamente a quella d’Italia, ed a quella d’Imperadore de’ Romani. Pacati tempi bramava, perchè gli venissero dolcemente a posare sul capo le sospirate corone. Piegò il padre alla pace, che trovandosi in Costanza in una dieta di Principi, spedì oratori in

  1. Sigon. De Regno Italico. Lib. 15.