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libro quarto | 291 |
tra il mare e l’Appennino, campeggiava in Val di Magra il violento Imperadore. Poche e scorate milizie gli avanzavano; temeva le primizie del Lombardo sollevamento; ai riposi della reggia sospirava. Tentò il varco dell’Appennino; glielo negò Pontremoli: lo rigettarono i Lombardi gelosi dei primordi della loro Lega1. Federigo non sarebbe più tornato in Italia, le Repubbliche non avrebbero aspettato il loro trionfo nella pace di Costanza, se quelli avessero voluto finirla con un bel colpo di mano, assalendolo in quelle angustie. Ma li rattenne il sagramento di mantenere la fede a chi non la conobbe mai, e quella tale timidezza di consigli, che chiamano moderazione, snervatrice del primo rilevarsi di un popolo. I gioghi, se non si vogliono, vanno spezzati, e non piegati.
Accorse a liberare l’Imperadore da quelle distrette Obizzo Marchese Malaspina, che per le sue terre della Lunigiana gli diè un passaggio; e così potè arrivare a Pavia a mezzo Settembre in pessimi arnesi. Nove mesi innanzi vi aveva celebrato il Natale in mezzo ad una splendida corte, ed un fiorito esercito, inchinato da tutta Lombardia. Ora di baroni e soldati non si vedevano che pochi, e la Lombardia gli era innanzi colla fronte dirizzata e con la mano sull’elsa. Egli ben si avvide del procelloso rovescio. Imperocchè fatto correre il bando di un parlamento, che voleva tenere in quella città, e con quello il comando ai suoi vassalli di recarvi le loro milizie, fu pochissimo il numero degli accorsi. Pavia, Novara, Vercelli, Como, furono le sole città che vi mandassero i loro deputati. De’ grandi Baroni, il Marchese Obizzo Malaspina, il Conte di Biandrate, Guglielmo Marchese di Monferrato, ed i signori di Belfort, del Seprio e della Martesana furono i docili ad andarvi. A questo rado convento Federigo parlò da Imperadore: ed invero aveva costui animo poderoso da sovrastare alla indomita fortuna tanto bruscamente rimutata. Sentenziò ri-
- ↑ Card. Arag. p. 459.