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286 | della lega lombarda |
senza un riparo, minacciato da vicine e nimicissime città, con un Tedesco sul collo. I rifuggiti in Pavia erano avvisati dagli ospiti: una grande sciagura sovrastargli; al sangue ed al fuoco anelare il Podestà; stessero in guardia. Da Pavia ai borghi correvano le sinistre voci, e costernavano le menti per vicino esterminio. Molti cercavano la salvezza colla fuga, riparando sè e le cose più care per le città di Como, di Novara, di Lodi. I restati si commisero a Dio. Specialmente ne’ borghi di Noceto e di Vigentino fu per molti dì un piangere ed un sospirare continuo. Nissuno più si ardiva riposare su i letti; di notte e di giorno era un tenersi all’erta con questo grido — Ecco i Pavesi, che ci appiccano il fuoco1 —
Ma questo fu l’ultimo grido che levarono dal servaggio que’ conculcati. Morti che si tenevano, furono repentinamente salvati. Il giuramento di Pontida era scolpito ne’ cuori, e ne’ cuori non fallisce la vita. Al rompere del ventisettesimo dì di Aprile (soli venti giorni dal famoso convento) comparvero inaspettati all’ingresso del borgo S. Dionigi dieci cavalieri di Bergamo, che colle spiegate insegne del loro comune salutarono i Milanesi fratelli, ed annunziarono l’ora della salute. Eran seguite da altrettante bandiere di Brescia, di Cremona, di Mantova, di Verona, di Treviso; venivano appresso le liberatrici milizie della Lega. Oh! sorgesse pure una volta a dì nostri quel sole che illuminò quelle sante bandiere! Come un sol uomo si levarono le quattro borgate, e corsero ad abbracciare i salvatori fratelli; ciascuno Milanese s’ebbe da essi un bacio, che suggellò il patto della generosa alleanza, ed una spada da propugnarla da forti. Recavano i collegati nuove provvigioni di armi, da fornirne i Milanesi2, i quali levando al cielo grida di gioia, vennero in trionfo ricondotti dai collegati alla rovinata Milano. Prontamente si misero con incredibile