Pagina:Storia della Lega Lombarda.djvu/287


libro quarto 281

nesi e Cremaschi, de’ quali abbiamo narrato, trovarono nella generosa Milano quasi una madre patria, che li accolse nel seno, e per Milano le perdute sedi riebbero. Fino a che questa fu in piedi, il giogo di Barbarossa non piegò i colli Lombardi, nè l’Aquila boreale osò toccare le vive carni italiane: poi se ne infarcì l’epa, e non fu sazia.

Quando al parlamento di Lodi si videro i Lombardi falliti in ogni speranza di sollievo, e Federigo andandosene coll’esercito verso Romagna, li lasciò colle croci in mano, uno sdegno nobilissimo entrò in tutti gli animi ed un desiderio di tornare un’altra volta uomini. La tirannide, de’ Podestà incrudiva, perchè impunita, anzi voluta dal Principe, minacciava perpetuarsi nelle più lontane generazioni. Quella è una mala belva che non si ammazza che col ferro, e presto. Imperocchè proceduta che sia negli anni, addorme gli spiriti, li ammalia, li fa sognare di star bene; e cacciato il santo amore della patria, sottentra il delirio de’ Principati paterni. I Lombardi non si addormirono, e careggiando nel cuore con novello ardore l’immagine della dilettissima patria, con italiano senno si dirizzarono a liberarla. Io dico senno, perchè l’avventarsi alla cieca a chi ci opprime è spesso un levar più alto il seggio dell’oppressore colla nostra rovina.

Quella prima lega di città della Marca Veronese, recò finalmente il sospirato frutto. Veronesi messaggi si sparsero celatamente per le altre città Lombarde. Andavano spiando i moti degli afflitti spiriti, ragionavano della crudissima schiavitù, mettevano un caldo fomento alle ire che ribollivano nel segreto dei cuori. Aprivano a queste la via a prorompere con ricisi consigli. «Che è questo lento morire? non è forse un’altra morte che subito ci sprigioni e ci tramandi immacolati agli avvenire? Vogliamo starcene? vogliamo seppellire con noi il vitupero? Ma figli non abbiamo? Italiani non sono? Deh! non insozziamo il nome di questi cari, che non han colpa! sia retaggio di dolori quello che s’avranno da noi, d’infamia non mai. Levia-