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libro terzo | 223 |
della loro infamia1; ed i sobborghi che eransi tenuti fedeli all’Imperadore.
Ristettero dal guasto que’ furibondi il dì primo di Aprile domenica degli Ulivi. Federigo da buon Cristiano si appresentò nella Basilica di S. Ambrogio a prendere il pacifico ramo benedetto; e fece porre a festa con drappi e cortine la chiesa, mentre era tutto in lutto, perchè egli solo gioiva. I Canonici gli dettero il ramo d’ulivo; ma richiesti dai ministri cesarei a ritrattare il giuramento di suggezione, già prestato ad Alessandro, e di riconoscere Papa Vittore, risposero con generoso niego. Stretti, si ritrassero, abbandonando la Basilica ed ogni loro ragione. I Canonici vollero mostrare che Milano non era morta. Sottentravano ad essi i monaci del monastero Ambrosiano nel possesso della Basilica, perchè si piegarono all’iniquo giuramento. Non so se fiacchi o ambiziosi fossero; certo infami restarono. L’Imperadore nell’eccidio milanese aveva stanziato nel loro monastero. È a dire che da qualche tempo que’ monaci vezzeggiassero il Barbarossa2.
Ma non cessò con queste pacifiche apparenze l’eccidio di Milano; sospeso per un dì, incrudì poi per insaziabile vendetta del ribaldo Principe. Gli davano ombra i campanili delle chiese non tocchi, e massime quello della metropolitana, che era una delle maraviglie d’Italia per la sua altezza, e la eleganza delle forme3. Anche i campanili vennero abbattuti; e questo di S. Ambrogio fu con tanta malizia de’ guastatori diroccato, che nel cadere rovinò molta parte della Basilica4. Fu la fine di Milano comandata da straniero imperante, compra ed operata da fraterne mani.