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libro terzo 221

mente non fu altro che la rivocazione del bando imperiale, cui erano stati sottoposti i Milanesi. Veniva appresso quella che Federigo chiamava giustizia.

Questo Imperadore temeva oltremodo Milano, avvegnachè spoglia di ogni libertà, caccita quasi nel fango per quelle stemperate umiliazioni patite in Lodi. Sapeva, che la violata pazienza si rimuti in furore: perciò, bevuti a larghi sorsi i gaudi della vittoria, non si ardì prorompere al feroce partito che meditava contro i Milanesi, questi presenti, nè in Lodi, che essendo in sul rinascere, non era che una mal sicura borgata. Improvvisamente ne sloggiò con tutta la corte e le milizie, e venne a dimorare in Pavia, grande, affezionata, e ben munita città. Di là finalmente a dì 18 di Marzo lanciò contro Milano l’editto del finale suo esterminio. Mandò precetto ai suoi Consoli, che in otto dì cacciassero dalla città quanti l’abitavano, non avuto rispetto ad età ed a sesso: tutti come bestie sbrancati fuori di patria. Quale animo fosse quello de’ Milanesi all’arrivare del crudelissimo bando, io non dirò, perchè non appaia ammorbidita dalla poesia la severa dignità della storia. Inermi, sprovveduti di ogni mezzo di resistenza, rotte in molte parti le mura, senza capi militari e civili, rimasti ostaggi in balia del Tedesco, piegarono, ma fremendo, il capo sotto la mano di Dio, che lo curvava, a dargli l’impeto di un subito e generoso rilevamento. Nel vigesimo sesto dì di Marzo la metropoli Lombarda, la rocca dell’Italiana indipendenza divenne deserta. Ne uscivano in folla i cittadini; ma non l’abbandonarono. Ciascuno si recava nel cuore tutta la patria, che rifuggita nel santuario di uno spirito contristato, era cosa di Dio, nè si toccava dagli uomini. Coloro che avevano parenti o clienti per le vicine terre e città, vi andarono tapinando ed accattando un tetto che li coprisse. Il rimanente del popolo oltre il fossato della città ristette come armento a ciel sereno. Vedi sagrilegio d’umanità1!

  1. Otto Morena p. 1103 e seg. — Sir Raul. p. 1187. — Trist. Calchi col. 253.