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Federigo non voleva solamente veder diroccate le mura di Milano, ma anche rovinati gli animi dall’altezza in che li teneva la notizia di essere Italiani. Per la qual cosa con raffinata malizia per ben tre volte trasse in pubblico ai suoi piedi le miserande turbe milanesi a chiedergli perdono, onde abbeverate di vergogna, non osassero più levare la fronte da tanto vitupero. Ma egli era Tedesco, e non sapeva, che le sventure in Italia non rompono ma ritemprano le anime generose ad incredibile fortezza. Fatta l’ultima presentazione, come la prima, il Barbarossa accomiatò i Milanesi, dicendo, voler dar principio ad un tempo alla clemenza ed alla giustizia: come ministro di giustizia doverli tutti dannar nel capo; amar piuttosto la clemenza. Ritenne ostaggi tutti i Consoli, che avevano esercitato innanzi il Consolato, i maggiorenti, le milizie, i legisti, i magistrati; e tolto il giuramento dal popolo, lo rimandò in patria1.

Io non so che si recassero nell’animo que’ tornanti; se la speranza del perdono, o il timore delle bestiali vendette di Cesare. Certo che non durarono molto ad uscire dalle dubbiezze. Seguivanli appresso imperiali ministri deputati da Federigo a compiere i consigli della sua clemenza. Eran dodici, sei Tedeschi ed altrettanti Italiani, e tra questi Acerbo Morena continuatore della Cronaca di suo padre Ottone. Costoro, come ne avevano ricevuto il mandato, chiamarono al giuramento di fedeltà tutti i Milanesi che oltrepassavano i dodici anni di vita; si fecero rendere i quattro castelli che avanzavano a Milano dei duemila, che innanzi possedeva2, e finalmente fecero a ciascuna porta della città abbattere tanto delle mura, e le fossa ricolmare, quanto avesse dato la via ad entrarvi all’esercito tedesco colle ordinanze spiegate. Questo non sapeva di clemenza: di cle-

  1. Id. ib.
  2. La campagna di Milano era gremita di queste rocche. Veggasi l’erudito Conte Giulini. Memorie storiche di Milano, Tom. 6. p. 241.