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libro terzo 209

cima eran tese giù, e legate al castello. Recava quella un gonfalone bianco con croce rossa, e finiva in cima con un globo d’oro sormontato da una croce anche d’oro. Le cose più sante e più gravi venivano solennemente amministrate sul Carroccio. Ogni dì un sacerdote vi sagrificava; su di quello si rendevano i supremi conforti della Religione ai moribondi, messi fuori della battaglia; vi si riducevano i capitani a parlamento, e vi ministravano giustizia. Il muoversi o l’arrestarsi del Carroccio accennava a quello delle schiere. O stanche o sbaragliate le milizie, gli si rannodavano intorno a prender lena. La caduta del Carroccio in man del nemico era un perdere al tutto la battaglia. Alla guardia del Carroccio era sempre deputato alcun personaggio riputatissimo per chiarità di natali e di valore; il quale, perchè nulla mancasse a renderlo reverendo anche alla vista, era provveduto dal comune di grasso stipendio, di splendida armadura, e di un aureo cinto. Pendeva dai suoi cenni una compagnia di soldati, che era il fiore dell’esercito, e otto trombettieri vestiti del colore del Carroccio, che davano il segno della battaglia. Adunque il Carroccio non era solamente una materiale insegna che serviva a condurre le milizie, ma era una morale rappresentazione della patria, che quasi viva e seguita dalle più sante affezioni di Dio e di famiglia, sorreggeva i battaglianti a fronte del nemico1.

Lasciati i Milanesi buona mano di fanti negli alloggiamenti, perchè li guarentissero da qualche improvviso assalto di quei di Carcano, e stessero alle riscosse dell’esercito, uscirono animosi alla battaglia. Andarono innanzi i stracorridori a pungere l’inimico per tirarlo fuori; seguivano ben serrati i regolari. I quali come si videro a petto dell’oste imperiale, le si avventarono a slancio, e tennero per lunga pezza una sanguinosa battaglia. Or qua or là pareva

  1. Vedi Nota A