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cui è stato parola, dal quale i Tedeschi operavano uno ariete tutto munito di ferro, e che con molto frutto percuoteva le mura. Ne aveva già smantellato un venti braccia, e si parava la via ad un assalto su la breccia. Ma come al di fuori profittava l’ariete, dentro si travagliavano i Cremaschi a contraporgli un altro muro di legno, o palancata, la quale repentinamente apparve come un miracolo, con sopra più arditi difensori. E mentre questi erano al loro ufficio, altri si aprivano una via sotterranea per venire al gatto non visti, ed appiccarvi il fuoco. Vi giunsero, ma non appena si mostrarono fuori vennero, tempestati di sassi da quella macchina, e con molta fatica e sangue potettero tornarsene, e chiudere a tempo l’aperta galleria, ad impedirne l’ingresso ai nemici.

Era assai tribolata la terra, nè dava requie ai cittadini il continuo saettare che facevano gli assedianti da un altissimo castello quanto si muovesse in quella. Si tenevano forti: non volevano arrendersi. Ma una domestica sciagura li attristò molto, e forse fu cagione della loro resa. Quel Marchesi che aveva fino a quel tempo con molto amore ed industria sorretta la pericolante patria, tutto ad un tratto villanamente la disertò. Fosse che non più reggesse agl’incomodi del lungo assedio, fosse che, tentato, cedesse alle principesche lusinghe del Barbarossa, celatamente gli si dette, e quell’ingegno che tanto egregiamente aveva usato ad indirizzare le difese della patria, con incredibile suo vituperio vendè al Tedesco. Imperocchè come se mai non fosse stato Cremasco, e non gli avanzasse più memoria della conseguita gloria per la difesa patria, si mise a indirizzare la sacrilega oppugnazione della medesima. Federigo lo accolse a braccia aperte, lo fornì di splendidi arnesi, e di un generoso cavallo1.

Infatti con questo valentissimo ma svergognato ingegniere le cose incominciarono ad andar meglio a Barbarossa. Il

  1. Otto Morena, p. 1046.