Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
libro secondo | 153 |
cioè la finale distruzione de’ Comuni Lombardi. Non potendo di persona prestare orecchio a tutti i querelanti, li divise per diocesi, ed a ciascuna diocesi deputò un giudice, che ascoltasse le parti, e le racconciasse secondo giustizia. E perchè diffinissero quei giudici senza amore di parti, volle che fossero sempre stranieri alla città, in cui andavano a dir la ragione. Quello che fu provvedimento temporaneo, mutò in legge perpetua. Intromise nelle libere città l’ufficio di Podestà. Egli Federigo o altro Imperadore doveva crearlo; il popolo non poteva che prestare il consenso alla imperiale creazione. Innanzi a questi Podestà o tedeschi o legisti andava a morire il potere de’ Consoli; e così quelle città che avevano gustato il dolce frutto della libertà, si trovarono spoglie di signoria, e gittate in braccio a qualche selvatico cavaliere tedesco, che non sapeva pure la favella del paese cui andava. Giuramenti molti, ostaggi moltissimi toglieva dalle città Barbarossa, ad assicurarsi della quietezza de’ Lombardi sotto questo giogo di ferro1.
Scioglievasi il famoso convento di Roncaglia; ciascuno tornossene a casa con la mala nuova della perduta libertà; Federigo lieto usciva ad esercitar la forza imperiale, ed a far qualche cosa del molto che poteva. Fra le altre era quella di stendere l’artiglio su le isole di Corsica e di Sardegna. Non poteva andarci senza naviglio. Spedì due ambasciadori ai Genovesi ed ai Pisani, per ottener navi. Nè Pisa nè Genova vollero contentarlo; e rimandarono i Legati con le pive nel sacco1. Questa specialmente dava molto a pensare a Barbarossa: al parlamento di Roncaglia non erano apparsi i Genovesi. Gli aveva fatti chiamare per lettere, rendendoli avvisati, che anche essi dovevano smungersi di danaio, e rilasciargli ostaggi, come avevano fatto gli altri. Ma quelli fecero i sordi; e come gente che era forte in casa propria, mandarono dicendo all’Imperadore,