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doli, ed atterrati finirli, quasi dicendo: Prenditi ora, o Roma, questo ferro tedesco, a vece dell’oro di Arabia. Questa è la pecunia che il tuo signore ti offre a mercè della corona. Così va compro l’Imperio dai Franchi. Queste sono le alleanze, questi sono i giuramenti, di che ti regala il tuo signore.» Sappiamo veramente grado ad Ottone di questa sincera confessione dell’animo suo e di sua gente. Se la rechi nel cuore ogni vero figlio d’Italia.

Vittorioso de’ Romani, Federigo non poteva domare un nemico che gli assottigliava l’esercito. Incominciava ad intristire l’aere per le maremme Romane, che riscaldate dal calore della state davano un pessimo influsso. Si sfacevano al sole italiano quei nortici corpi, infermavano di febbri, e morivano. Era scarso il vivere, e ne cresceva il difetto il non volere i Romani tener mercato di vettovaglie. Una grande morìa consumava l’oste tedesca.

L’Imperadore mosse gli alloggiamenti, e li andò a piantare verso i monti: andava con lui Adriano. In Tivoli celebrarono il dì di S. Pietro: sagrificò il Pontefice. Rapportarono ad Ottone di Frisinga, che questi tra le cerimonie della messa spandesse sull’esercito tedesco assoluzioni, pel sangue che aveva sparso in Roma. Certo che Federigo nol confortò a farlo, tenendo per giustissima quella guerra, e perciò giustamente ammazzati i Romani. Adriano poi, come vedremo appresso, sebbene apparisse amico del Barbarossa, aveva l’animo a tutt’altro disposto che ad assolvere quella bestiale generazione di uomini. Levò la mano alle consuete benedizioni papali; ed i Tedeschi, che non sapevano di quelle cose, si credettero assoluti.

Le malattie che conquassavano l’esercito tedesco eccitavano più forte tra’ soldati il desiderio di tornarsene a casa. Erano milizie, come fu detto, feudali, perciò temporanee; ed al finire della campagna non era forza che avesse potuto rattenerle sotto le insegne. Federigo aveva ancora grandi cose a fare: il reame di Sicilia gli era fitto nella mente, e ricordava delle spedizioni di Lodovico il Pio, di Ottone,