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libro secondo 111

Ma in questo egli fu colto dagli emuli e gridato eretico, quasi drudo sagrilego di quella Verità, cui già stendeva la mano. Rottogli il gran pensiero, il cuore, che aveva caldo di quell’amore, famelico si converse ad Eloisa, che incontrò nella limpida cerchia della sapienza. Fra le sue braccia anche adoperò la ragione a piegare il sovrannaturale, austero guardiano dell’amore del sommo Bello, perchè glie lo rendesse ad affratellarlo a quello della creata bellezza; ma invano: qui pure fu colto dai nemici, che lo finirono1. Verità ed errore, amore ed odio tenzonarono nell’anima di Abelardo; perciò mentre Parigi lo eguagliava ai Filosofi dell’antichità, Roma lo rincacciava tra gli eretici: mentre alle porte del Paracleto mistificava l’amore della rinchiusa Eloisa, acremente rispondeva coll’odio ai suoi nemici. Questi erano cherici; e poichè l’arma che quegli menava a tondo era la ragione critica, i colpi che dava non si arrestavano sull’armadura aristotelica degli avversarî; ma scendevano al vivo. Per la qual cosa Abelardo fu terribile riprenditore dei vizi chericali; e come questi si derivavano dalla troppa cura che prendevano delle terrene cose, alle loro ricchezze, al potere, laicale che ministravano, assestò i colpi.

Fra i suoi discepoli fu Arnaldo da Brescia, Lombardo, e perciò già educato a quello spirito attivo che edificava le Repubbliche in Italia; accolse lo spirito filosofico di Parigi, che dalla cattedra di Abelardo si diffondeva acre e nemico della sacerdotale potenza. Come Italiano nulla aveva a fare in Francia; si recò in Lombardia poi in Roma; perchè in queste parti era la sede del sacerdozio in tutta la sua grandezza, ed una libertà ad aiutare. Facondo parlatore, rinfocò gli animi e persuase ai Romani, non doversi lasciare in mano del Papa il temporale reggimento, doversi risuscitare l’antica Repubblica. Così l’Impero ed il Sacerdozio che eransi combattuti a vicenda, ebbero un comune nemico a combattere, Arnaldo da Brescia.


  1. Fulberto.