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difficoltà non prevveduta, il tempo della spedizione prolungato oltre il promesso, aspreggiava i Baroni, li faceva dar la volta, ed il Principe correva pericolo di trovarsi in paese straniere senza un fante. Nè solamente per licenza militare si sfrenavano que’ soldati, ma anche per improvvidenza del Principe. Tutto il pensiero era nell’assembrare quanto più numeroso si potesse l’esercito; ma alla disposizione delle vie a tenersi in una spedizione, all’approvvigionamento delle cose necessarie alla vita, alla preparazione de’ quartieri punto nè poco. Si provvedeva quando stringeva il bisogno: ed allora il soldato già erasi provveduto colle mani proprie. Perciò o amico o nemico si dicesse questo esercito, era sempre una dolorosa reminiscenza di quelli armenti, che ci cacciarono in casa Attila e Genserico, di spaventevole memoria.

Ciò non isfuggiva alla mente di Federigo; anzi avevalo toccato con mano nell’entrar che fece in Italia. L’esercito patendo fame nelle strette delle Alpi (almeno così dice il Vescovo Ottone) e spinto dalla necessità, aveva manomessi alcuni luoghi sacri. Ad arrestare la fama di questi primi trascorsi, Federigo fece raccogliere per l’esercito certe oblazioni, che mandò ai Vescovi di Trento e ad altre chiese, a ristorarle dai danni sofferti. Mosse gli accampamenti, e li ridusse a Roncaglia presso Piacenza, sulle rive del Po, sito consueto ai parlamenti del regno Italico1. Dovevano colà convenire i feudatari dell’Impero e le città per loro Legati a giurare fedeltà al Tedesco, pena la confisca dei feudi, e il bando dell’Impero ai contumaci: dovevansi rinnovare in Italia i giudizî di Costanza. Molti non ebbero voglia di quel giuramento, e furono colpiti della regia condanna. Primo poi alle lamentazioni fu Guglielmo di Monferrato invelenito contro la città di Asti ed il borgo di Chieri, che francati in libertà e reggendosi a comune, tribolavano il Marchese ed i suoi vassalli, per ridurlo sotto la loro protezione. Entrarono i Lodigiani e i Pavesi a piatire contro

  1. Vedi Nota A.