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68 LIBRO SETTIMO — 1809.

due figlioli, al vedere sè libero e colei nel pericolo, ritornò al soccorso, e prima di raggiungerla fu ucciso. In Puglia altro capo di briganti, ricordando la credulità di quei popoli e le riferite fortune del Corbara nel 1799, si finse il principe Francesco Borbone, compose una corte, e con pompa regia taglieggiava, rapinava, e solamente astenevasi dal sangue per meglio accreditare con la clemenza la regal condizione. Fra i delitti di brigantaggio e quelli che dal brigantaggio derivavano, il censo giudiziario del regno numerò in quell’anno, 1809, trentatremila violazioni delle leggi.

Sconvolgimenti sì grandi si operavano sotto il nome del duca d’Ascoli, del principe di Canosa, del marchese della Schiava e di altri primarii cortigiani del re di Sicilia, ed avevano incitatori e seguaci molti già fuggiti coi Borboni. Avvegnachè nei disegni di quella guerra, e nelle opinioni e discorsi della corte borbonica, il brigantaggio, tenuto mezzo legittimo e chiamato voto e fedeltà di popolo, non faceva ribrezzo ai borboniani più onesti. Ma il re Gioacchino che ne giudicava per le opere, furti, assassinii, rovine, e niente di sacro, di nobile, di grande; non popolo mosso, comunque barbaramente qual nel 1799, a sostegno de’ proprii diritti, o di opinioni che sono dritti nei popoli, ma plebe armata, ladra, omicida; fu preso da tanto sdegno e vendetta che dettò tre leggi degne di ricordanza.

Rammentata l’ostinatezza dei fuorusciti a combattere con modi atroci contro la patria, e l’essersi accompagnati ad esercito straniero, e l’avere alcuni mosso, altri seguito il brigantaggio, prescrisse che i beni liberi di quelle genti fossero confiscati, e parte data in ricompensa ai danneggiati, parte in premio ai più zelanti seguaci del governo; il resto venduto a benefizio della finanza: con modi tanto celeri e larghi che apparisse il governo sdegnoso, non avido, ed ai suoi magnifico.

Con altra legge invitò i Napoletani che militavano per il re Borbone a disertare quelle bandiere e venire in patria, ove avrebbero, come più bramassero, il ritiro dal servizio, e lo stesso grado che lasciavano nell’esercito di Sicilia, e miglior fortuna, ed onorato combattere per la terra natale. A coloro che, schivi all’invito, cadessero prigioni, minacciava come a ribelli la morte. Ma lo dico ad onore degli uffiziali borbonici e di Gioacchino, non alcuno tra loro per lusinghe o minacce disertò, nè i prigioni ebbero altra pena che le consuete molestie della prigionia militare.

Una terza legge prescrisse che in ogni provincia, per cura del comandante militare e dell’intendente, si facesse lista dei briganti, chiamati dopo allora Fuorgiudicati; si affiggesse nei pubblici luoghi di ogni comune; si desse ad ogni cittadino facoltà di ucciderli o arrestarli; arrestati, si giudicassero dalle commissioni mili-